
Avevo bisogno di un libro che mi facesse ridere, che mi risollevasse un po’ il morale, e questo di Piero Chiara ha fatto proprio al caso mio. Come molti sapranno, le vicende dei suoi personaggi si intrecciano spesso sullo sfondo provinciale della zona di Varese o di altre località del Lago Maggiore, dove vengono riprodotti, in scala ridotta, vizi e virtù del genere umano. Il piatto piange (1962), Il pretorio di Cuvio (1973) e La stanza del vescovo (1976) sono infatti romanzi molto indicativi in tal senso. Quelle di Chiara sono storie semplici e scorrevoli che si leggono tutte d’un fiato, però sempre valorizzate da un sottile umorismo, da un’ironia che a tratti diventa anche arguta e spregiudicata nel cogliere le piccolezze dell’animo umano, senza però mai cedere alla trivialità. Romanzi quindi adatti per tutti i gusti, soprattutto per chi ha bisogno di staccare la mente da letture più pesanti e impegnative.
Il libro ci introduce subito nella vita asettica e pudica delle sorelle Tettamanzi, che “brutte ciascuna a suo modo di una bruttezza singolare, e consapevoli della ripugnanza che ispiravano agli uomini, avevano tacitamente soppresso l’amore, come se l’avessero seppellito in giardino per nascondere una vergogna”. Donne contro ogni tentazione, quindi, ma con cultura e intelligenza, al punto che anche il più maligno dei luinesi doveva riconoscerne le qualità intellettuali.
…e volendo per ripicco rilevarne la bruttezza, era costretto ad ammettere che Fortunata aveva una splendida capigliatura, Tarsilla un paio di gambe perfette e Camilla due mani di fata. Tre particolari che neppure riuniti insieme in una sola delle tre sorelle sarebbero bastati a fare una bella donna, ma che presi a sé erano ciascuno una piccola meraviglia.
Solo per il padre quei pregi isolati erano dei difetti, degli errori nel suo sforzo sincero per ottenere la bruttezza compiuta.