
Questo libro è un osso duro da recensire. L’ho riletto in questi giorni, a distanza di qualche tempo, e sebbene ne sia stata nuovamente colpita mi sono anche resa conto che non è facile da presentare.
Come sia riuscito Faulkner a dare forma ad un tale parto letterario, per di più – così dicono – mentre lavorava di notte come fuochista in una centrale elettrica nell’estate del 1929, usando come tavolino una scomoda carriola capovolta, è un vero mistero. Credo che solo una mente geniale e pazzoide potrebbe riuscire in un’impresa simile, considerando anche la complessità e la qualità del testo. Del resto un genio, per essere veramente tale, deve pur avere una componente di follia che gli scorre nelle vene, perché è proprio questa che spesso gli permette di vedere oltre, di cogliere quegli aspetti che alle persone ordinarie invece sfuggono.
Diciamo subito che anche in questo romanzo, come nel bellissimo L’urlo e il furore, assistiamo alla graduale decadenza di un nucleo familiare, seppure in forme e modalità diverse. Immaginatevi una coppia e cinque figli che vivono nella contea di Yoknapatawpha nel Mississippi (luogo ormai mitico e ricorrente nelle opere di Faulkner), dove conducono una vita parca e stentata, fatta di miseria e sacrifici. Immaginate poi che la mater familias, gravemente malata, si faccia promettere in punto di morte dal marito di essere trasportata con la bara fino nella sua terra d’origine, per poter riposare eternamente accanto ai suoi avi. E poi immaginatevi questo strampalato convoglio alle prese con un viaggio tanto arduo quanto insidioso, minacciato da acquazzoni, diluvi, fiumi in piena, ponti e strade interrotte, incendi inaspettati e via dicendo, che mettono più volte a repentaglio l’integrità della bara. Insomma, una vera e propria via crucis che nonostante i giorni di viaggio prolungati dagli imprevisti, con tanto di avvoltoi al seguito attratti dal fetore della salma in putrefazione, alla fine si conclude senza drammi troppo eccessivi, ma anzi con la prospettiva di un futuro migliore.