C’è in noi un bisogno radicale di riconoscimento che non ha niente a che fare con l’ammirazione, la stima, la fama. È come un bisogno di benedizione, di parentela o almeno di familiarità, di iniziazione superata, di passaggio a stirpe che ti sceglie all’improvviso e ti dà il nome.
Una volta, sono andata a vivere per un mese in una casetta in una foresta di una piccola regione francese. Era un secadou – quelle casine di pietra dove un tempo si seccavano le castagne –, che qualcuno aveva adattato a semplicissima abitazione, ed era circondata da castagni secolari.
Appena arrivata, ho sentito il bisogno di presentarmi agli alberi, almeno ai più anziani e vicini a casa, per chiedere il permesso di restare. Mi sono avvicinata al più vecchio, mi sono inchinata e poi, accostandomi ai rami, gli ho detto che, se per lui e per tutti loro andava bene, sarei rimasta a vivere lì per un mese e che chiedevo la sua protezione. Un ramo si è spostato, con la grazia che solo i vecchi conoscono, e si è posato con le sue foglie proprio sulla mia testa. Non c’era vento. Sono rimasta immobile, impietrita dallo spavento dell’amore che si realizza, dalla risposta. Ho sentito come se un padre grande e sconosciuto, in silenzio, mi mettesse una larga mano sulla testa per benedirmi e riconoscermi. Ho lasciato scendere le lacrime, restando fermissima, finché la persona che era con me è venuta a chiamarmi: allora gli ho fatto segno con il dito sulla bocca per chiedere il nobile silenzio e gli ho indicato il ramo sopra la mia testa. Più tardi gliel’ho raccontato.
Nei giorni successivi, ho guardato l’albero di mattina presto, di pomeriggio e di sera, l’ho salutato dalla finestrina della stanza in cima alla casetta, ma non ho più osato avvicinarlo, se non per una vaga carezza, passando. Non volevo chiedere prove. Ero certa.
Il giorno della partenza, sono tornata a inchinarmi e a salutarlo, la “cosa” si è ripetuta, identica.
Sono stata riconosciuta e benedetta da un castagno molto vecchio. Non potrà mai esserci un riconoscimento pari a questo.
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Alle fronde dei salici – Salvatore Quasimodo
Negli anni più tragici della seconda guerra mondiale i poeti non avevano più voce, scrive in questa poesia Quasimodo. Avevano appeso le loro cetre alle fronde dei salici (alberi tradizionalmente associati al pianto e al dolore) ed erano rimasti muti, dolorosamente raccolti in una silenziosa protesta. Del resto, come avrebbero mai potuto cantare i loro versi con il piede straniero (i nazisti invasori) premuto sopra il cuore (l’amata patria occupata, violentata e oppressa)? Come sarebbe stato possibile trovare un minimo d’ispirazione, fosse anche una sola parola, di fronte ad eventi terribili quali il massacro delle fosse Ardeatine (Roma, 24 marzo 1944) e la strage di Marzabotto (29 settembre–5 ottobre 1944)? Quest’ultima tristemente ricordata anche come “marcia della morte”, perché aveva visto altre località emiliane passate in rassegna dalle truppe nazi-fasciste, con centinaia di uomini, donne, vecchi e bambini massacrati nelle piazze, nelle loro case o lungo le strade… Nessun partigiano tra le vittime della rappresaglia tedesca, solo povera gente terrorizzata.
Come si può leggere in questo articolo, «nel 1944 Quasimodo non riesce a produrre un solo verso, al pari di altri scrittori italiani che pur non partecipando attivamente alla lotta di liberazione, sono resi creativamente sterili dal dolore e dal lutto. Nei primi mesi del 1945 Quasimodo riprende la penna in mano e scrive la bellissima lirica Alle fronde dei Salici, in cui il poeta manifesta il travaglio interiore di uomo e di poeta. La poesia apre la raccolta poetica Giorno dopo giorno ed esprime l’impazienza verso i progressi dell’offensiva contro l’esercito tedesco. Ma esprime anche la gioia per la Liberazione che si concluderà qualche mese più tardi, il 25 aprile 1945. Una doppia liberazione per il poeta che non ha potuto scrivere per lungo tempo. Si può dunque considerare Alle fronde dei salici la poesia della Liberazione, che pone fine al silenzio in cui si erano relegati i poeti, inaugura la nuova poetica italiana e ridà voce al popolo».
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
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Ricordando i più giovani
Con lieve ritardo, dedico anch’io un post alla Giornata della Memoria. A dire il vero è da una settimana che leggo, medito e svolgo delle ricerche, ma per questioni di tempo mi è stato impossibile concludere prima. Non importa, se ne può sempre parlare in un secondo momento. Anzi, stavo pensando che sarebbe utile pubblicare degli scritti sul tema della Shoah anche nel corso dell’anno, in modo da mantenere sempre “viva” la riflessione. Più se ne discute, anche all’interno dei nostri piccoli spazi virtuali, meglio è. Ogni tanto mi tornano in mente le parole di Primo Levi, così come appaiono nell’appendice del libro Se questo è un uomo: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre.” Ecco, nei prossimi mesi, sperando in una migliore gestione del tempo, non mi dispiacerebbe analizzare altri aspetti di questo capitolo terribile della storia umana (con nuovi studi, letture), anche se comprenderlo no, comprenderlo non mi è (e non mi sarà mai) possibile. Tanta crudeltà esula dalla mia capacità di comprensione.
Nel ricordare dunque i più giovani (bambini e adolescenti), si calcola che tra ebrei, slavi, zingari e disabili ne furono sterminati almeno un milione e mezzo. Una cifra da capogiro, che non solo sgomenta ma fa provare una profonda rabbia, soprattutto se si pensa che ancora oggi ad un numero incalcolabile di minori viene negato il diritto all’infanzia in diverse zone del mondo, perché seviziati e/o massacrati nelle varie guerre etniche, se non drogati, armati, usati come kamikaze per combattere in nome di ideali farneticanti. Bambini costretti a convivere fin dalla nascita con brutture di ogni tipo, che se pure si salvano restano comunque traumatizzati a vita, mutilati nello spirito se non anche nel corpo. Torturare e massacrare un altro essere umano è già in sé un’azione orrenda, inconcepibile per chi abbia un minimo di compassione, ma farlo a un bambino lo è ancora di più. È un atto infame, esecrabile, che non può avere assoluzione. Imperdonabile in ogni caso, al di là dei motivi scatenanti, del contesto, dell’epoca…

Dolomiti, anime di monti
Non monti, anime di monti sono
queste pallide guglie, irrigidite
in volontà d’ascesa. E noi strisciamo
sull’ignota fermezza: a palmo a palmo,
con l’arcuata tensione delle dita,
con la piatta aderenza delle membra,
guadagniamo la roccia; con la fame
dei predatori, issiamo sulla pietra
il nostro corpo molle; ebbri d’immenso,
inalberiamo sopra l’irta vetta
la nostra fragilezza ardente. In basso,
la roccia dura piange. Dalle nere,
profonde crepe, cola un freddo pianto
di gocce chiare: e subito sparisce
sotto i massi franati. Ma, lì intorno,
un azzurro fiorire di miosotidi *
tradisce l’umidore ed un remoto
lamento s’ode, ch’è come il singhiozzo
rattenuto, incessante, della terra.
* pianta erbacea dai fiorellini azzurri più conosciuta con il nome “nontiscordardimé”
Video realizzato nell’agosto 2016, nell’ambito del festival culturale d’alta quota “Mistero dei monti”, per omaggiare la poetessa milanese Antonia Pozzi, che amava scalare e fotografare le vette immergendosi nel loro silenzio. Le Guide alpine, adoperando abiti e materiali dell’epoca (tra i quali la corda di canapa), sono salite in vetta al Castelletto Inferiore seguendo la Via Normale dal rifugio Tuckett, ripercorrendo così il percorso fatto da Antonia a soli diciassette anni. All’indomani della salita (13 agosto 1929), la poetessa aveva dedicato a questa esperienza delle parole molto intense e vibranti, così come rievocate nel video sullo sfondo dei profili rocciosi, imponenti e abbaglianti, delle Dolomiti di Brenta.
Il Festival “Mistero dei monti” viene promosso ogni anno dall’Azienda per il Turismo Madonna di Campiglio Pinzolo Val Rendena; qui la pagina per eventuali informazioni sull’imminente programma estivo (5-19 agosto 2017).
La poesia, intitolata Dolomiti, è stata tratta dal libro “Parole” pubblicato dalla casa editrice Ancora. Una raccolta preziosa e completa di tutta l’opera pozziana, curata da Gabriella Bernabò e Onorina Dino, di cui parlerò a fondo in uno dei prossimi articoli.
Pedro Salinas, non solo amore…
E improvvisa, inattesa,
fortuita, l’allegria.
Da sola, perché volle,
è venuta. Così verticale,
così grazia insperata,
così dono a sorpresa,
che non posso credere
che sia per me.
Mi guardo intorno,
cerco. Di chi sarà?
Sarà di quell’isola
sfuggita dall’atlante,
che mi è passata accanto
vestita da ragazza,
con spume al collo,
abito verde e un grande
spruzzo di avventure?
Non sarà forse caduta
a un tre, a un nove, a un cinque
di questo agosto che inizia?
Oppure è quella che ho visto tremare
di là dalla speranza,
nel fondo di una voce
che mi diceva: «No»?
Ma non importa, ormai.
Sta con me, mi trascina.
Mi sradica dal dubbio.
Sorride, possibile;
prende forma di baci,
di braccia, verso me;
finge d’essere mia.
Andrò, andrò con lei
ad amarci, a vivere
tremando di futuro,
a sentirla veloce,
secondi, secoli, eternità,
niente. E l’amerò
tanto, che quando verrà
qualcuno
– e non lo si vedrà,
non si potranno udire i suoi
passi – a richiederla
(è il suo padrone, era sua),
quando la condurranno,
docile, al suo destino,
lei si volterà indietro
a guardarmi. E vedrò
che ora è mia, finalmente.
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Dedicate ai figli
Bella e per molti aspetti originale, ricca d’inventiva nel modo di esprimere pensieri ed emozioni sul filo di una tenera ironia, questa poesia fu scritta da Sylvia Plath durante la gravidanza, dedicata alla piccola creatura che portava in grembo. Compilata tra gennaio e febbraio del 1960 si rivelò di buon auspicio per la nascita di Frieda Rebecca, che decise infatti di fare la sua comparsa al mondo nella giornata del primo aprile, onorando in tal modo il pronostico dei versi.
Tu sei
Simile a un clown, felice soprattutto a testa in giù,
piedi alle stelle, un cranio lunare,
le branchie come un pesce. Un sensato
pollice verso allo stile del dodo.
Avviluppato su di te come un rocchetto,
esploratore del tuo buio come i gufi.
Muto come una rapa dal quattro
di luglio al Primo Aprile,
oh pallina che cresci, mia pagnottella.
Vago come la nebbia e atteso come la posta.
Più lontano dell’Australia.
Atlante curvo, nostro gamberetto viaggiatore.
Rannicchiato come un bocciolo e a tuo agio
come uno spratto nel vasetto.
Nassa di anguille tutta fremiti.
Salterino come un fagiolo messicano.
Giusto come un’addizione ben fatta.
Foglio pulito, con su la tua faccia.
All’incirca un anno dopo, nel febbraio 1961, Sylvia scrisse un’altra poesia per sua figlia, incantevole per le metafore adottate. La terza strofa, in particolare, è molto bella e suggestiva, così come il paragone tra il respiro della bambina e il lieve tremolio della falena in quella successiva. Di fronte a versi simili rimango sempre sbigottita, quasi incapace di trovare le parole adatte per formulare un commento.