Mark Strand, una poesia

Risfogliando l’antologia “L’uomo che cammina un passo avanti al buio”, lo sguardo mi è caduto su una lirica d’amore molto intensa e per alcuni aspetti sofferta, quindi piuttosto inusuale nel panorama poetico dell’autore canadese, che com’è noto verte in gran parte su tematiche dal sapore filosofico, quali ad esempio l’evanescenza del tempo e la dissoluzione delle cose, non senza un certo gusto per la finzione, il paradosso e l’autoironia. Nella poesia in questione risalta invece la malinconia di fondo legata al ricordo di una donna desiderata, attesa e forse mai arrivata, chissà se immaginata o realmente perduta… Ve la propongo interpretata (con il testo originale che segue) dalla voce calda, bellissima, di Domenico Pelini, che gestisce un canale YouTube dedicato alla lettura ad alta voce di versi, prosa e pagine da ricordare.

Buon fine settimana, qui da noi con tempo ancora incerto tra nuvole e sole, ma già foriero di colori e profumi natalizi.


Mare nero

Una notte serena mentre gli altri dormivano, ho salito
le scale fin sul tetto di casa e sotto un cielo
cosparso di stelle ho guardato il mare, la sua distesa,
le creste mobili spazzate dal vento che divenivano
lacerti di trina lanciati nell’aria. Ristetti nel sussurro
protratto della notte, in attesa di qualcosa, un segno, l’approssimarsi
di una luce distante, e ti immaginai che ti facevi vicina,
le onde buie dei  capelli che si fondevano con il mare,
e il buio si fece desiderio, e il desiderio la luce incipiente.
La prossimità, il calore momentaneo di te mentre stavo
lassù da solo a contemplare le ondate lente del mare
frangersi sulla riva e farsi per un poco vetro e scomparire…
Perché credetti che saresti uscita dal nulla? Perché con tutto
quello che il mondo offre saresti dovuta venire solo perché io ero qui?


La lirica fa parte della raccolta Man and Camel, del 2006, inclusa nel volume L’uomo che cammina un passo avanti al buio, Mondadori, 2011, p.373. La traduzione è di Damiano Abeni.

Sulla poetica di Mark Strand, di cui fra qualche giorno ricorre l’anniversario della morte (29 novembre 2014), trovate un approfondimento in questa pagina, e poi in quest’altra ancora, che avevo pubblicato qualche anno fa.

Pubblicità

Le ombre di Salinas

No, tu non puoi amarmi:
stai in alto, così in alto!
E per consolarmi
mi mandi ombre, copie,
ritratti, simulacri,
tutti così somiglianti
come se fossi tu.
Fra immagini vivo
di te, senza te.
Mi amano,
mi stanno vicino. Andiamo insieme
nei chiostri dell’acqua,
sui ghiacci galleggianti,
nella pampa, o in cinema
minuscoli e profondi.
Parlando sempre di te.
Mi dicono:
«Non siamo lei, ma tu
vedessi come siamo uguali!».
I tuoi fantasmi, che braccia
lunghe, che labbra dure
hanno: sì, come te.
Per fingere che mi ami,
mi abbracciano e mi baciano.
Le loro tenere voci mi dicono
che tu abbracci, che tu
baci così. Io vivo
di ombre, fra ombre
di carne tiepida, tersa,
con i tuoi occhi, il tuo corpo,
i tuoi baci, sì, con tutto
ciò ch’è tuo, meno te.
Con creature false,
divine, insinuatesi fra noi
perché quel grande bacio
che non possiamo darci
glielo dia, me lo diano.
Continua →

Pedro Salinas, il poeta dell’amore

La voce a te dovuta, Pedro Salinas, Einaudi, 1979, p.234
La voce a te dovuta, Pedro Salinas, Einaudi, 1979, p.234

Chi mi conosce sa quanto io apprezzi una poetica intelligente, fatta di riflessione e scavo interiore. Meglio ancora se impostata in modo originale o venata di sottile ironia. Per questo e altro le poesie di carattere puramente sentimentale mi hanno sempre attratta poco e altrettanto poco convinta, a parte qualche rara eccezione (vedi ad esempio Cesare Pavese, di cui mi piace tutto o quasi). Oltretutto mi sorge il dubbio che non sia per niente facile scriverle, le poesie d’amore, perché il rischio di scadere nella banalità, nel ridicolo o nell’affettazione è sempre dietro l’angolo. Forse è più facile verseggiare sui colori della natura, sulla vita e la morte, sulle crisi interiori e le solitudini sofferte, che non sulla persona amata e desiderata. Capita infatti di rado di leggere dei versi d’amore, classici o moderni, che siano veramente in grado di esprimere qualcosa di significativo e vibrante, mentre al contrario è più facile imbattersi in composizioni che, al di là di una loro apparente gradevolezza, sono in realtà incapaci di destare un vero coinvolgimento.

Non è questo il caso di Pedro Salinas (1891 –1951), professore universitario, poeta e critico letterario nella Spagna degli anni ‘30, poi esule negli Stati Uniti durante gli anni della guerra civile. Salinas aveva fatto parte della famosa “generazione del 1927”, una vera e propria avanguardia letteraria con un programma di progetto e di scrittura, fondata da un gruppo di poeti spagnoli vincolati anche da amicizia personale, tra i quali Jorge Guillén, Rafael Alberti, Federico García Lorca, Gerardo Diego, solo per citarne alcuni. Diciamo subito che Salinas è riuscito a distinguersi fra tutti per la capacità di trasporre i sentimenti in versi in un modo veramente unico e originale, oltre che incredibilmente intenso, al punto che la sua opera è considerata ancora oggi tra le migliori della poesia amorosa del Novecento. Le scelte espressive del poeta si muovono all’interno di schemi convenzionali operando delle lievi e sottili trasformazioni, e in questo modo riescono a sviluppare un discorso nuovo e personale senza entrare in rottura con la tradizione. Anche le eventuali suggestioni ereditate dalla generazione precedente – Unamuno, Machado e in particolare Juan Ramón Jiménez – si rivelano più delle assonanze che non dei veri e propri echi.
La voce a te dovuta, pubblicata nel 1933 e considerata dalla critica odierna come la raccolta della maturità, è composta da settanta poesie dedicate alla stessa donna, una sorta di canzoniere amoroso che trasuda passione e sensualità da ogni verso. Sono componimenti autonomi e senza titolo, non legati tra loro da una successione temporale, che però concorrono a formare un discorso unitario, tutto incentrato sulla ricerca di una forma d’amore che possa trascendere i limiti imposti dal tempo e dalla realtà contingente. Volendo si potrebbe anche intendere come un poema della memoria, dove i versi viaggiano sul filo di ricordi, emozioni e sensazioni attraverso dei monologhi o lunghi dialoghi con la figura dell’amata. É una poetica che indaga i diversi momenti e stati d’animo dell’amore, con domande e risposte che vanno alla continua ricerca di un senso. La donna appare concretamente desiderata e amata, oggettiva in se stessa, ma a volte anche sfuggente, impenetrabile per alcuni aspetti.

Continua →

Cesare Pavese, due poesie

Ti son caduto accanto.
Tu stavi muta colle ciglia chiuse.
Ti baciavo la nuca
e quasi non sapevo.
Sono triste, angosciato,
più nulla ti so dire.
Oh mi pare che tu non voglia più!
E’ tanto triste adesso quell’istante.
Ho paura che tutto sia finito.
Non mi dici più nulla.
Sono solo terribilmente solo
e avvilito.
Prima almeno speravo
e trepidavo ignaro.
Ora non so,
ma sto male
tanto male.
Oh come mi ha lasciato solo
il tuo bacio!
Tu ricordi, bambina:
<< Senza una donna da serrarmi al cuore mai l’ebbi e mai l’avrò. Solo; stremato, da desideri immensi…>>
Mi par di ritornare in quell’inferno
quando scrivevo quei versi.
Ma allora ero già tanto rassegnato.
Ora ho nel sangue un veleno terribile
e il disgusto del fumo
che ho respirato per sognare di te
mi rivolta la gola.
Tu non senti più nulla?
Oh una tua tenerezza
in questa sera maledetta
mi ridarebbe la vita.
Ma tu non mi hai detto più nulla
e mi pare vorrai così per sempre.
Oh non potevo crederlo
di essere amato!
Di avere una donna,
un corpo vivo, un’anima,
un povero e divino cuore umano
che sognasse di me.
Eppure l’ho sperato,
accanto a te l’ho sperato,
nei baci dolci,
nelle parole sommesse
moribonde di tenerezza.
L’ho ripensato nel cuore ardente
trepidante di un tuo sorriso.
Oh se fosse uno spasimo,
se potessi urlare
tutto sconvolto
come ho fatto tante volte
prima dei tuoi baci,
ma no, è una sofferenza
atroce ma stanca,
che mi avvelena il sangue
con la nausea del fumo
e il ribrezzo
e l’incertezza.
Tornare adesso a far la vita buia
sterile, stanca,
dopo tutto quel paradiso
non posso più non posso.
Ho bisogno di averti d’accanto
e di stringerti a me
e vederti sorridere
e piangere e sognare
e socchiudere gli occhi
a tanti baci
e ridirmi parole
per me solo per me solo.
Oh che nausea che angoscia orribile!
Solo più stretto a te
posso reggere in vita.
Sarà egoismo senz’amore,
me ne vergognerò anche,
ma ti supplico fammi ancora sentire
il tuo amore bello,
fammi credere ancora
coi tuoi capelli devastati,
colle tue palpebre scure abbassate
come viole appassite,
che io nella vita non sono un mendicante
rifiutato da tutti.
Fammi dimenticare questo
nei tuoi baci divini.
Oh bambina se tu sapessi quanto ho sofferto
quando stasera non mi hai detto nulla.

(notte 30 agosto 1927)
Continua →