
Queste sono le ultime cose, scriveva. A una a una scompaiono e non ritornano più.
Così inizia questo romanzo, con la protagonista Anna Blume che scrive una lettera ad un amico per raccontargli il suo lungo viaggio alla ricerca del fratello, un giornalista scomparso da tempo. Un viaggio che l’ha portata in una terra lontana, allucinante e violenta, in una città senza nome dove ladri, assassini e suicidi formano addirittura dei club. Un paese distrutto dove si respira un’angosciante atmosfera postbellica, dove le persone e gli oggetti sono a rischio di estinzione e qualsiasi rottame acquista valore. Dove per una scarpa rotta o per un rimasuglio di cibo si è disposti anche ad uccidere.
E anche Anna Blume diventa in breve tempo, per necessità di sopravvivenza, una cacciatrice di oggetti in un paese devastato, dando così forma a un’immagine metaforica che non è nuova nelle opere di Auster, visto che si ricollega per certi versi al personaggio del vecchio Stillman di Città di vetro (uno dei romanzi che compone la Trilogia di New York), che girava impazzito per le strade raccogliendo ogni sorta di oggetto per attribuirci dei nuovi nomi. Ma l’atmosfera che si respira Nel paese delle ultime cose è ben peggiore, al limite del claustrofobico.
Un giorno mi è capitato di seguire un’intervista dove Auster spiegava che per scrivere in modo soddisfacente deve prima focalizzare molto bene nella mente degli spazi ben precisi, deve riuscire a vedere le stanze dove si muovono i personaggi, gli edifici in cui entrano, le strade, le colline, gli alberi, tutto nel modo più dettagliato e realistico possibile, così da poter entrare “virtualmente” nella storia. Bene, provate allora a leggere questo breve romanzo distopico e vi renderete subito conto di quanto e in che modo sia stata messa in pratica tale strategia… Auster ti porta proprio a vedere e quasi a toccare quello che ha immaginato nella sua mente, e vi assicuro che in alcune pagine non potrete fare a meno di sentire un senso di nausea o qualche brivido sulla pelle.