
Ci siamo mai chiesti quali possano essere le conseguenze di un digiuno prolungato e non voluto? Possiamo immaginarcelo cosa significhi stare per alcuni giorni senza mangiare? Senza mangiare veramente? Fino al punto di sentirsi sconvolti dalla brutalità dei morsi che attanagliano lo stomaco, spaventati dalla debolezza che si impossessa di ogni arto, storditi dall’angoscia che obbliga la mente a farneticare… E come se non bastasse, sentirsi soprattutto tormentati da quell’urgenza fisiologica di nutrirsi che non dà pace, da quella necessità di ingurgitare cibo, di ingurgitarne tanto, con una bramosia che non concede tregua e che infierisce in ogni momento della giornata, fino a quando un’occasione soddisfa finalmente tale necessità, che però viene quasi subito mortificata da un tremendo conato di vomito, perché lo stomaco non è più abituato a trattenere nessun alimento…
É possibile figurarselo tutto questo senza averlo vissuto in prima persona? Per quanto mi riguarda ne sono poco convinta, e infatti fin dal giorno in cui ho letto per la prima volta questo libro, che tratta appunto dei travagli causati dalla fame, mi sono sempre chiesta se all’autore fosse capitata la disgrazia di provare un’esperienza simile per riuscire a descriverla così bene. La sofferenza patita dal protagonista del romanzo è infatti di una tale portata e intensità, accentuata anche dalla narrazione in prima persona, che sospettarlo è quasi d’obbligo. Sono quindi andata a caccia di ulteriori informazioni e ho scoperto che la storia è in gran parte autobiografica; forse lo scrittore non sarà proprio arrivato al punto di dormire sulle panchine, e magari non avrà nemmeno sfiorato così tante volte la morte, ma l’infanzia passata nella miseria c’è stata, così come la continua ricerca di un lavoro nello strenuo tentativo di sopravvivere decorosamente, fino al raggiungimento dei primi successi letterari.