Fame

Fame, Knut Hamsun, Adelphi, 2009, 186 p.
Fame, Knut Hamsun, Adelphi, 2009, 186 p.

Ci siamo mai chiesti quali possano essere le conseguenze di un digiuno prolungato e non voluto? Possiamo immaginarcelo cosa significhi stare per alcuni giorni senza mangiare? Senza mangiare veramente? Fino al punto di sentirsi sconvolti dalla brutalità dei morsi che attanagliano lo stomaco, spaventati dalla debolezza che si impossessa di ogni arto, storditi dall’angoscia che obbliga la mente a farneticare… E come se non bastasse, sentirsi soprattutto tormentati da quell’urgenza fisiologica di nutrirsi che non dà pace, da quella necessità di ingurgitare cibo, di ingurgitarne tanto, con una bramosia che non concede tregua e che infierisce in ogni momento della giornata, fino a quando un’occasione soddisfa finalmente tale necessità, che però viene quasi subito mortificata da un tremendo conato di vomito, perché lo stomaco non è più abituato a trattenere nessun alimento…

É possibile figurarselo tutto questo senza averlo vissuto in prima persona? Per quanto mi riguarda ne sono poco convinta, e infatti fin dal giorno in cui ho letto per la prima volta questo libro, che tratta appunto dei travagli causati dalla fame, mi sono sempre chiesta se all’autore fosse capitata la disgrazia di provare un’esperienza simile per riuscire a descriverla così bene. La sofferenza patita dal protagonista del romanzo è infatti di una tale portata e intensità, accentuata anche dalla narrazione in prima persona, che sospettarlo è quasi d’obbligo. Sono quindi andata a caccia di ulteriori informazioni e ho scoperto che la storia è in gran parte autobiografica; forse lo scrittore non sarà proprio arrivato al punto di dormire sulle panchine, e magari non avrà nemmeno sfiorato così tante volte la morte, ma l’infanzia passata nella miseria c’è stata, così come la continua ricerca di un lavoro nello strenuo tentativo di sopravvivere decorosamente, fino al raggiungimento dei primi successi letterari.

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Il venditore di storie

Il venditore di storie, Jostein Gaarder, TEA, 2004, 248 p.
Il venditore di storie, Jostein Gaarder, TEA, 2004, 248 p.

Come ho già accennato in un’altra occasione, Gaarder sceglie spesso dei bambini come protagonisti dei suoi racconti, forse perché dotati di una mente aperta, curiosa, un po’ filosofica, sempre pronta a porsi mille domande di fronte alle manifestazioni del creato. Questa volta il personaggio principale è però un adulto, sebbene bambinesco sotto molti aspetti, per la precisione un autore di storie provvisto di un’inventiva strabordante e frenetica, ma anche di una tale tracotanza da risultare spesso antipatico.

Nella prima parte del romanzo, dove il protagonista ripercorre con la mente tutta la sua giovinezza, ci troviamo a seguire delle vicende in bilico tra fantasia e realtà che in qualche modo stupiscono per la loro stranezza, come ad esempio il misterioso ometto con tanto di cappello e bastoncino alla Charlie Chaplin che solo il nostro venditore di storie riesce a vedere, probabile proiezione del suo inconscio turbato. Una sorta di guida, o chiamiamolo daimon, che gli appare fin dall’infanzia sfoderando degli atteggiamenti un po’ bislacchi e altezzosi. Quando però si approda nei capitoli finali la vicenda assume un risvolto abbastanza indigesto, al punto che mi sono chiesta se ne sia valsa la pena leggerla. Gaarder ha scritto a mio parere di meglio, basterebbe citare L’enigma del solitario, un viaggio fisico e interiore dai risvolti fiabeschi ma profondamente significativo, che fa veramente riflettere su temi esistenziali di una certa importanza, o al limite basterebbe ricordare Il mondo di Sofia, il bestseller di concetti filosofici per ragazzi scritto in modo semplice e piacevole, bellissimo da leggere anche per gli adulti.

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L’enigma del solitario

L’enigma del solitario, Jostein Gaarder, TEA, 2006, 351 p.
L’enigma del solitario, Jostein Gaarder, TEA, 2006, 351 p.

Un bambino intelligente e curioso, un padre marinaio e filosofo dedito all’alcool, un lungo viaggio dalla Norvegia alla Grecia alla ricerca di una madre/moglie che è scomparsa per ritrovare se stessa. Un vecchio panettiere che vive in un paese sperduto sulle montagne, dove custodisce non solo leccornie e bevande magiche ma anche segreti che vengono tramandati di generazione in generazione. Questi gli ingredienti iniziali del romanzo, con un percorso che si arricchisce man mano di misteri e sorprese, soprattutto per il protagonista bambino (l’io narrante del racconto) che si troverà alle prese con personaggi e contesti piuttosto bizzarri, come ad esempio l’ambiguo nanetto incrociato lungo la strada che gli regala una lente d’ingrandimento; lente che poi gli servirà, guarda caso, per leggere i caratteri minuscoli di un libretto in miniatura rinvenuto in un panino. Un libretto che contiene una storia incredibile, che parla di un’isola incantata dove le carte da gioco prendono misteriosamente forma e vita… e qui inizia il “metaromanzo”, ossia la storia nella storia, che narra le vicende di un naufrago approdato in un luogo sorprendente, che forse è frutto (oppure no) di una mente fervida di immaginazione. Una storia ricca di misteriosi segnali inquietanti che cattura l’interesse del  ragazzino per tutto il viaggio, fino al punto di fargli sospettare che forse non tutto ciò che è scritto è pura fantasia.

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Ritorno alla natura

Pan, Knut Hamsun, Biblioteca Adelphi, 2001, 189 p.
Pan, Knut Hamsun, Biblioteca Adelphi, 2001, 189 p.

La figura di Knut Hamsun, Premio Nobel per la letteratura nel 1920, è relegata ancora oggi nel dimenticatoio per la passata collaborazione con il  partito nazista. Se all’inizio fu amato e stimato, riconosciuto come uno dei migliori scrittori del Nord, degno rappresentante della nazione norvegese, nel dopoguerra diventò oggetto di odio e disprezzo per aver sostenuto con i suoi scritti il governo filonazista di Vidkun Quisling, fantoccio di Hitler in Norvegia. Processato e privato dei beni, fu rinchiuso per due anni in un ospedale psichiatrico, nonostante l’età molto avanzata. Le autorità norvegesi cercarono di farlo passare per pazzo per salvaguardarne la figura letteraria, ma Hamsun reagì sempre con fermezza e lucidità mentale, assumendosi la responsabilità di tutto ciò che aveva scritto.
Alcuni studiosi pensano che lo scrittore fosse entrato in sintonia con l’ideologia nazista senza rendersi conto degli orrori che ne sarebbero conseguiti. Forse aveva visto in Hitler e nella Germania nazionalsocialista l’incarnazione del futuro uomo europeo, sul modello di quel superuomo che Nietzsche aveva tanto osannato. Arrivò al punto di intravedere nel Fürher una sorta di crociato riformatore che avrebbe creato una nuova epoca e un mondo migliore, senza rendersi conto di quanto fosse appannata questa visione. La convinzione diffusa, anche tra critici e storici della letteratura norvegese, è che Hamsun, per quanto filonazista, non fosse in realtà antisemita, e infatti nei suoi romanzi non trapelano segnali in tal senso. Lo scrittore era stato probabilmente attratto (e abbagliato) dalla visione utopistica di una società perfetta ed elitaria, affrancata dalle pecche della complicata e caotica civiltà moderna. E nel suo ideale sostegno al totalitarismo hitleriano non riuscì a scorgere il pericolo del sadismo e delle atrocità razziste che ne sarebbero derivate.
Per i motivi appena descritti, sull’opera di questo raffinato autore (peraltro apprezzato anche da Thomas Mann, Arthur Schnitzler, Hermann Hesse e tanti altri) è calato un ostinato e anacronistico silenzio, che purtroppo perdura tutt’oggi. Eppure i romanzi di Hamsun – caratterizzati da personaggi fragili, delicati, estraniati dalla realtà, oltre che mossi da una visione panteistica della natura – meritano di essere letti e giudicati al di fuori delle passate preferenze politiche dello scrittore, nonché delle sue debolezze umane.

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