Menzogna e sortilegio – in lettura

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Opere, Elsa Morante, I Meridiani, vol.I, 1988

Che meraviglia! Un romanzo ricco, sontuoso, dalla prosa ampia ed elegante, ma nello stesso tempo coinvolgente, trascinante, che lascia ben impressi nella mente i tratti caratteriali e gli stati d’animo dei personaggi (in particolare quelli negativi, tratteggiati con grande maestria) e che ricorda come struttura i romanzi di stampo ottocentesco, anche per via della ripartizione in parti e capitoli, con quest’ultimi introdotti da brevi didascalie iniziali.
Pubblicato nel dopoguerra del ’48, in pieno clima neorealista, questo primo romanzo della Morante (elaborato in quattro anni) si poneva in netto contrasto con le altre opere letterarie del periodo, che vedevano l’emergere di autori come Elio Vittorini, Cesare Pavese, Italo Calvino, Vasco Pratolini e altri ancora, tutti impegnati nel descrivere gli eventi drammatici, ancora vicini e sofferti, dell’esperienza partigiana, della liberazione dal nazifascismo, e quindi ad illustrare la realtà contemporanea di un Paese appena uscito dal conflitto, alle prese con problemi d’ogni genere. La Morante, invece, con “Menzogna e sortilegio” sembrava voler percorrere un cammino tutto suo, squisitamente individuale e per certi versi paradossalmente moderno, considerata appunto la totale estraneità con i modelli letterari allora in voga. Fu quindi a suo modo provocatoria, magari senza averne l’intenzione.
Leggendo qualche nota biografica, mi sembra di aver intravisto nella sua personalità un bisogno primario di libertà espressiva, una necessità di essere sempre fedele a se stessa e all’ispirazione creativa del momento, che attingeva spunti sia dalle varie letture fatte (fra le tante, quelle degli amati Cervantes, Stendhal, Dostoevskij, Kafka e Verga) che da episodi del vissuto personale. Oltre questo, l’autrice era anche indifferente ai richiami del mercato letterario, abituata a lavorare con dedizione quasi artigianale su ognuno dei suoi romanzi, ai quali dedicava anni di scrupolosa gestazione.

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Marco e Mattio

Marco e Mattio, Sebastiano Vassalli, ET Einaudi, 1994, 315 p.
Marco e Mattio, Sebastiano Vassalli, ET Einaudi, 1994

Questa è una storia che per molti aspetti colpisce e impressiona, difficile dimenticarsela. Una storia che parla di miseria, di fame, di pazzia, di follia redentrice, il tutto sullo sfondo di grossi cambiamenti epocali. Anche in questo caso, com’era accaduto nel romanzo La chimera, la trama si modella sulla base di un’accurata ricerca documentaria che in alcune parti si avvale dell’invenzione. I riflettori sono puntati non sui grandi personaggi storici, che pur essendo presenti rimangono sullo sfondo del romanzo, ma sulla gente umile e povera, che rappresenta da sempre la categoria più vessata del tessuto sociale. Vassalli tendeva infatti a prediligere le vicende dei singoli che si incrociano con la Grande Storia, le storie di uomini e donne spesso sconosciuti o quasi del tutto ignoti, che spesso e volentieri ripescava dal buio dell’oblio con tutto il loro carico di esperienza vissuta e patita. Era quindi un narratore di storie più che un romanziere nel senso classico del termine, ma in fondo raccontare – come ha scritto Paolo Mauri nel retro copertina – è pur sempre salvare, raccontare è anche un’opera di perplessa pietas verso vite altrimenti estinte per sempre.

Il periodo storico tracciato nel romanzo è quello a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento, che vide la fine della Repubblica di San Marco (le cui classi nobiliari opprimevano da decenni le campagne venete con pesanti dazi) per opera delle truppe napoleoniche francesi, le quali al posto della libertà promessa si dedicarono a soprusi e saccheggi, per poi cedere da lì a poco il Veneto all’Impero Austriaco, che tolto un breve periodo ci spadroneggiò fino all’unità d’Italia, imponendo nuove e pesanti tasse alla popolazione locale. Erano quindi anni turbolenti per l’Italia, segnati dall’alternanza di continui domini stranieri e da tentativi di sommosse contadine soffocate subito nel sangue. Famosa ad esempio quella capeggiata dal brigante Desiderio Manfroi, detto l’Userta, che cercò di ribellarsi ai soprusi dell’aristocrazia bellunese, di volta in volta compromessa con il dominatore straniero di turno, forse più con l’intenzione di trafugare per sé dei beni preziosi che non per vero amor di patria, come suppone anche Vassalli nel libro. Il quadro che il romanzo dipinge di questo periodo storico è comunque sconsolante, perché alla fine chi ci riemetteva era sempre la classe rurale, che restava povera, cenciosa e affamata, mentre i ceti aristocratici trovavano sempre il modo, grazie ad un’alleanza o all’altra, di preservare vecchi e nuovi privilegi.

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Le scarpe bagnate

In quell’anno 1776 che portò a Zoldo tante novità e tanti prodigi, accade anche un altro fatto memorabile in casa Lovat, e questo fu che s’indemoniò il piccolo Floriano e che lo si dovette accompagnare a cividal – cioè a Belluno – per essere sdemoniato: come si racconterà nelle pagine che seguono. La causa dell’indemoniamento non fu mai accertata, per quante supposizioni si facessero: ci fu chi disse che il ragazzo aveva bevuto l’acqua di una certa sorgente, a cui nessuno più osava avvicinarsi da molto tempo, perché in quei pressi era accaduto un delitto; che aveva fatto arrabbiare una certa vecchia, nota a tutto il vicinato per essere una strega, e che la vecchia l’aveva “segnato”; che s’era trovata dentro al suo letto una pavea (farfalla) d’un genere particolare, di quelle blu con i puntini gialli che in realtà sono anime del Purgatorio, condannate a vagare negli stessi luoghi, dove hanno commesso le loro colpe. Il primo indizio che nel piccolo Floriano era venuto ad abitare un Diavolo lo si ebbe da un fatto curioso. Mattio e Ferdinando, i due fratelli più grandi che dormivano con lui, di tanto in tanto trovavano alla mattina, presso il letto, le scarpe bagnate e la faccenda era inspiegabile: nessuno, mentre loro dormivano, sarebbe potuto entrare nella loro stanza, senza svegliare i genitori nella stanza accanto! Si pensò dunque alla presenza di una smara, e si cercò di cacciarla come si cacciano le smare: appendendo due teste d’aglio su ogni porta di casa e tenendo in camera da letto una bottiglia vuota, chiusa e sigillata con la ceralacca. La smara, per chi non lo sapesse, è un folletto di sesso femminile molto comune nel Veneto settentrionale e tra le Dolomiti, che va attorno col buio a fare dispetti; ma né l’aglio, né la bottiglia chiusa, né le immagini e le medagliette della Madonna che la signora Vittoria aveva nascoste nella stanza dei figli, produssero l’effetto voluto. I due ragazzi continuarono a trovare le scarpe bagnate, non proprio tutte le mattine ma abbastanza spesso, e nessuno sarebbe riuscito a svelare quel piccolo mistero se il ciabattino Marco Lovat non si fosse appostato una notte nella stanza dei figli dopo che loro si erano addormentati, e se non avesse visto – alla luce fioca del lumino sul cassettone – il piccolo Floriano che si alzava, andava a bagnare le scarpe dei fratelli più grandi nel modo che tutti possono immaginare, e se ne tornava a dormire come niente fosse. Il ragazzo – raccontò lo scarpèr alla signora Vittoria – aveva gli occhi aperti ma non si era accorto della presenza del padre, e non si era svegliato nemmeno quando lui gli aveva detto sottovoce, per non farsi sentire dagli altri suoi figli: «Floriano! Cosa stai facendo?».
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Se questo è un uomo

Se questo è un uomo – La tregua, Primo Levi, Einaudi, 1989, pp.362

«Ogni uomo civile è tenuto a sapere che Auschwitz è esistito, e che cosa vi è stato perpetrato: se comprendere è impossibile, conoscere è necessario».

Questa volta scriverò un po’ di pancia, evitando di soffermarmi  su dettagli storici, nomi, date… Tutti ormai sappiamo come si sono svolti i fatti nel corso del secondo conflitto mondiale, di come ha manovrato e agito la macchina del nazismo in ogni settore, e comunque sono notizie reperibili ovunque. Quella che invece mi preme trasmettere è l’emozione assorbita durante la lettura di questa drammatica testimonianza, e le relative riflessioni che ne sono derivate. Non parlerò quindi neppure dei motivi per cui questo libro è considerato oggi un classico, né degli episodi e delle varie citazioni che lo ricollegano alla Commedia di Dante, anche se non potrò fare a meno di utilizzare con una certa insistenza la metafora lager-inferno. Le indagini poetiche, letterarie e formali le lascio ad altri recensori, quelli che se la cavano meglio di me in termini di accuratezza. Farò solo una breve introduzione, poi tutto il resto lo lascerò scorrere come viene. Confido quindi nell’indulgenza di chi si appresta a leggermi, e mi scuso fin da adesso per la carenza di una certa schematicità.

Iniziamo col dire che Primo Levi fu catturato nel dicembre del ’43 e deportato, a distanza di circa un mese, nel campo di lavoro di Monowitz, in Polonia, che faceva parte del complesso concentrazionario di Auschwitz. Nei pressi del lager c’era la Buna-Werke, di proprietà della I.G. Farben, un impianto chimico per la produzione di gomma sintetica che utilizzava i prigionieri come manodopera, o meglio come schiavi-lavoro, rimpiazzandoli con altri detenuti ogni volta che morivano stremati dagli stenti. Levi ebbe la fortuna, se così si può chiamare, di essere a un certo punto selezionato per lavorare nel laboratorio della Buna, grazie alla sua laurea in chimica, e questo gli permise di evitare ulteriori fatiche nell’ultimo periodo di prigionia. Nel laboratorio poteva infatti svolgere delle mansioni meno disagevoli e riuscire a contrabbandare del materiale con cui effettuare transizioni per ottenere cibo. La stessa fortuna lo sostenne anche nel gennaio del 1945, quando ormai i russi stavano avanzando costringendo i tedeschi alla ritirata, visto che si ammalò di scarlattina e fu quindi abbandonato dagli aguzzini nell’infermeria del campo, insieme ad altri malati, evitando in questo modo quella lunga marcia di evacuazione da Auschwitz (poi definita Marcia della Morte) che fu letale per migliaia di altri detenuti, che crollavano a terra fucilati o congelati. Il viaggio di ritorno di Levi in Italia, lungo e travagliato, attraverso mezza Europa devastata, ci è stato poi descritto nel romanzo La tregua, altrettanto interessante da leggere per capire le ulteriori evoluzioni di questa sua difficile esperienza.

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Racconto d’autunno

Racconto d’autunno, Tommaso Landolfi, Adelphi, 2013, pp. 133
Racconto d’autunno, Tommaso Landolfi, Adelphi, 2013, pp. 133

Un partigiano braccato nei boschi, una dimora vetusta e isolata, un vecchio scostante e misterioso, il ritratto di una donna affascinante, un sotterraneo che nasconde dei segreti inquietanti…
Questi gli ingredienti principali del romanzo, dove l’iniziale realismo della guerra partigiana lascia progressivamente il posto ad una tragica vicenda d’amore e morte, che per molti aspetti si ricollega all’atmosfera cupa, fantastica e malinconicamente romantica di tanta narrativa gotica inglese.

In un periodo che l’autore non precisa, ma che corrisponde alla seconda guerra mondiale, un partigiano in fuga dall’esercito invasore si trova costretto, come tanti, a vagabondare a lungo in zone selvagge che sono lontane dalla sua sede abituale. Ad un certo punto, seguendo un sentiero nel bosco, giunge stanco e affamato presso una grande casa dall’aspetto signorile e decadente, che pare abbandonata ma che invece è abitata da un vecchio malmostoso. Questi si dimostra fin da subito riluttante ad offrirgli ospitalità, ma alla fine cede di controvoglia, sperando che l’importuno si tolga dai piedi al più presto. La scontrosità del vecchio viene enfatizzata ancora di più dalla presenza di due cani feroci e minacciosi, che sembrano ubbidirgli ciecamente affiancandolo in ogni spostamento. Nonostante questo, col trascorrere dei giorni il protagonista – che nel libro sta raccontando l’intera vicenda in prima persona – decide di prolungare il suo soggiorno nel maniero, non solo per tutelarsi dai rischi esterni ma anche perché attratto in modo irresistibile da un’immagine femminile intravista in un quadro…

Era un ritratto a mezzo busto di giovane donna, che fissava il riguardante; un olio alquanto annerito, ma non tanto che non si distinguessero i particolari. La donna era vestita secondo la moda degli ultimi anni del secolo passato o dei primi di questo, con tutto il collo chiuso in un’alta benda di pizzo; di pizzo era anche la veste, dalle maniche sboffate; sul petto ella recava un grande e complicato pendentif o breloque (come allora si diceva) di topazi bruciati, sorretto da nastri di seta marezzata; sulle spalle un amoerro, ricadente in larghe e convolte pieghe. La massa dei capelli bruni era pettinata in conseguenza, cioè in ampio cercine o cannuolo attorno alla fronte, in mezzo al quale spiccava un minuscolo diadema a forma di corona. Le di lei fattezze, delicate e chiare, recavano l’impronta inequivocabile della nobiltà di sangue e di carattere, e quel minimo di sdegnosità che l’accompagna sovente. Le guance appena arrotondate attorno alla bocca attribuivano, inoltre, a quel volto qualcosa di vagamente infantile. (pag.47)

Ma sono soprattutto gli occhi del ritratto, scuri e conturbanti, che sembrano quasi vivi, a colpire il visitatore. La sua curiosità viene però subito ostacolata dall’atteggiamento rigido del vecchio, che si affretta a stabilire una serie di regole e divieti, come ad esempio quello di non accedere a certe zone riservate dell’ampia casa. Ma come è facile supporre, il protagonista-narratore violerà ben presto i suddetti limiti, aspettando ogni volta il momento propizio per addentrarsi nei meandri del vecchio caseggiato alla ricerca di una fantomatica presenza femminile, di cui a tratti gli sembra di percepire i passi, il respiro, il profumo, e che nella sua mente suggestionata ricollega al dipinto recentemente osservato. E in questi viaggi esplorativi che si snodano tra corridoi, stanze, locali sotterranei e inaspettati passaggi segreti, all’interno di un maniero labirintico che appare senza fine e che diventa ad ogni angolo sempre più inquietante, alla ricerca di non si sa bene cosa e col rischio di venire scoperti da un momento all’altro, anche chi legge la storia, al pari dello stesso narratore, si ritrova di frequente con il fiato in sospeso, avvinghiato alle pagine e incapace di staccarsene, tanto è appunto il clima di incertezza e continua aspettativa che trasuda dal racconto.

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La cognizione del dolore

La cognizione del dolore, Carlo Emilio Gadda, Garzanti, 2010, 214 p.
La cognizione del dolore, Carlo Emilio Gadda, Garzanti, 2010, 214 p.

Forse è necessaria una premessa: affrontare Gadda è faticoso, richiede impegno e una buona dose di concentrazione, quindi non è adatto per chi cerca delle letture più disimpegnate o scorrevoli. La sua è una scrittura complessa e articolata, caratterizzata da frequenti similitudini e metonimie, da inserzioni dialettali e straniere, da neologismi e vocaboli di derivazione tecnico-scientifica, da arcaismi colti, raffinati e pedanteschi. Una sorta di pastiche linguistico che si “autoinventa” di continuo con le trovate più impensabili, per di più complicato da spezzature e digressioni, per cui è facile perdere il filo del discorso se non si mantiene un’attenzione costante. Per il significato di certi termini è necessario consultare le note a piè di pagina, se non un dizionario, ma è uno sforzo che ripaga con il piacere di comprendere meglio certi passaggi.
Non per niente la prosa gaddiana è stata definita più volte espressionistica e plurilinguistica, proprio per la violenza con cui opera sul linguaggio alterandone gli equilibri normali, combinando assieme differenti livelli stilistici e linguistici. Però non bisogna fraintendere, perché quello di Gadda non è autocompiacimento, non è puro esercizio di stile. Come ha spiegato lui stesso nella presentazione del libro, dopo aver preso atto del fatto che il mondo è già barocco in ogni suo aspetto, lui non ha fatto altro che riprodurre tale baroccaggine nei suoi testi. La tendenza a rendere certi passaggi ridondanti nasce quindi da una necessità espressiva che poggia su dei motivi ben precisi.

Nella visione di Gadda l’uomo appare infatti come un nodo, un groviglio di rapporti fisici e metafisici, per cui narrare significherà, di conseguenza, inseguire e dipanare tutti i fili di quel groviglio, con la certezza però di non arrivarne mai a capo. Quindi, per quanto si cerchi di dipanare meticolosamente la matassa con l’ausilio di invenzioni talvolta comiche e parodiche e altre volte patetiche e impietose, sviluppando in modo “abnorme” (barocco) ogni segmento della narrazione, il problema rimane sempre lì, con il suo nucleo enigmatico non risolto, lontano da facili risoluzioni e imprevedibile negli esiti futuri. É come se Gadda volesse farci intendere che il disordine del mondo non si può eliminare; lui per primo ci ha provato, partito con la volontà di trovarci un’armonia, un punto di equilibrio, ma avendone riscontrato la continua insensatezza non poteva che convincersi dell’esistenza di una disarmonia congenita e prestabilita, che niente e nessuno può riuscire ad eliminare. La Letteratura, quindi, se vuole rappresentare fedelmente la realtà in cui viviamo, deve apparire anch’essa come un groviglio inestricabile, come un’espressione insoluta della complessità del mondo. E cosa c’è di meglio di uno stile letterario barocco, enfatico e ridondante per esprimere al meglio gli eccessi del nostro mondo? Stesso discorso per il plurilinguismo, che miscidando assieme gerghi, termini aulici, settoriali e stranieri finisce col rappresentare in modo efficace le molteplici contraddizioni dell’esistenza umana.
Con tutto questo Gadda si proponeva di realizzare una prosa che fosse una resa della vita nella sua più ampia accezione. Ma il pastiche linguistico aveva anche lo scopo di offrire una rappresentazione straniata e umoristica della realtà, che nella visione dell’autore è sempre soggetta ad una serie di cause e concause che determinano lo snodarsi di eventi imprevedibili entro cui si muove un’umanità eterogenea accomunata dall’esperienza del dolore.

Penso che per comprendere bene Gadda, la cui forma stilistica è stata definita più volte “avanguardistica”, a dispetto della riluttanza che l’autore nutriva per le etichettature, sia anche utile sapere che la sua vena narrativa subì l’influenza di letture filosofiche e psicoanalitiche (in particolare Spinoza, Leibniz, Freud), oltre che tecnico-scientifiche (era laureato in ingegneria elettrotecnica e lavorava nel settore), e che probabilmente dalle prime era scaturito il desiderio di penetrare la realtà sondandola dalla superficie fino al nucleo, nel tentativo di comprenderla e classificarla, mentre dalle seconde era derivata l’attenzione ossessiva per il dettaglio, per i particolari più minuti, oltre che la mania per l’ordine e la precisione. Da una parte c’è quindi una spinta alla costruzione, ossia a definire un insieme che raccolga le facce più disparate della realtà, e all’opposto c’è un perdersi nel frammento, ossia in descrizioni troppo pedanti e minuziose degli oggetti e contesti esaminati. La conseguente frustrazione è quindi inevitabile, perché la volontà di prendere in considerazione ogni più piccola cosa conduce inevitabilmente alla dispersione, e quindi al fallimento del desiderio di raggiungere una visione unitaria delle cose.
Tale tensione, che non trova mai un bilanciamento, si avverte anche nel modo stesso in cui Gadda ha svolto i suoi lavori letterari, spesso cresciuti attorno a progetti che non sono stati portati a compimento, poi raccolti in volumi come brani di diversa origine e destinazione. Anche i suoi capolavori, La cognizione e il Pasticciaccio, si trasformano più volte nel percorso della loro gestazione senza mai arrivare ad un esito definitivo. Il non-finito caratterizza tutta l’opera gaddiana, perché, come spiega lo storico della letteratura Giulio Ferroni, “l’immagine del tutto si dà solo attraverso l’amplificazione e la moltiplicazione di particolari frantumati, che non possono veramente saldarsi tra loro”.

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Sebastiano Vassalli, un ricordo

vassalli

Un’altra grande perdita per il mondo letterario italiano: la scorsa notte è morto Sebastiano Vassalli. Aveva solo 73 anni. Era candidato al Premio Nobel 2015 per la letteratura. A settembre avrebbe dovuto ritirare il Premio Campiello alla carriera.

Nel blog trovate le recensioni di due suoi romanzi, La chimera (Premio Strega 1990) e Cuore di pietra, emblematici dell’ampia cultura, dell’abilità narrativa e del profondo lavoro di ricerca storica che caratterizzavano il suo modus operandi. Nei suoi testi le analisi storiche e sociali si sono fatte vera e propria letteratura. In un’intervista fattagli da Repubblica nel 2014, dove si era un po’ confessato superando la scontrosità che da sempre lo caratterizzava, Vassalli aveva detto che “Le grandi storie sono nel passato, o nel futuro. Il presente è la vita del condominio. C’è qualche spunto che diventerà importante, ma noi non possiamo coglierlo o, nel momento in cui si manifesta, non ha bisogno dello scrittore. Ne parleranno la televisione, i giornali, Internet”.
Tra le sue grandi passioni c’era anche il “poeta maledetto” Dino Campana, alla cui vita aveva dedicato il romanzo La notte della cometa. Un libro a mio avviso bellissimo, di cui un giorno posterò un articolo. Nel frattempo mi sono proposta di leggere anche Il Cigno, Un infinito numero e Marco e Mattio.

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Feria d’agosto

Feria d’agosto, Cesare Pavese, Einaudi, 1975, 194 p.
Feria d’agosto, Cesare Pavese, Einaudi, 1975, 194 p.

Probabilmente sarà capitato anche a voi, in qualche momento sperduto della vostra infanzia, di intrecciare un dialogo con un campo di granoturco (o con una roccia, un ruscello, una vecchia quercia), un dialogo formato non solo da percezioni visive ma anche da suggestioni profonde seppure non ben definibili, al punto che, una volta divenuti adulti, soffermandovi di nuovo e per caso ai margini di quel posto, ossia di fronte a quel particolare elemento che era riuscito in qualche modo a turbarvi, l’antica memoria all’improvviso riaffiora e vi inonda come una rivelazione, con una presa emotiva così travolgente che vi sembra quasi di venire catapultati, per qualche brevissimo istante, in quel lontano e rimosso frangente.
Per quanto mi riguarda non sono nuova a questi stati d’animo, che spesso possono infatti sorprendermi attraverso un profumo, un accostamento cromatico, un particolare bagliore, o ancora per i dettagli di un oggetto, per le sfumature di un paesaggio. É qualcosa che giace sepolto nell’inconscio e che all’improvviso si ridesta, difficile da chiarire in termini razionali, e se nel mio caso sarà difficilmente un campo di grano a ravvivarlo nella coscienza, potranno invece esserlo una casa diroccata al limitare di un bosco, le fronde di un albero sbattute dal vento, il candore di una guglia innevata che si staglia nel cielo… Elementi che bene o male si legano alle mie personali esperienze. Perché sembra che ognuno di noi sia predisposto a ricevere degli stimoli in base al tipo di emozioni che ha vissuto e introiettato nel proprio passato e che, in modo più radicale di tante altre, sono riuscite ad affondare radici occulte e silenziose negli strati più profondi della memoria.
Per Pavese, che con la sua prosa bella e poetica sa rendere molto meglio di me il concetto, queste sono immagini già impresse dentro di noi, colte e introiettate in momenti esistenziali particolarmente sentiti, in particolare durante la crescita; sono lampi percettivi che “si rapprendono e concentrano nel tempo in figure naturali” e che poi si ripresentano in modo impensato sulla nostra strada nel momento giusto, quando meno ce lo aspettiamo, investendoci con tutta la loro forza scombussolante e rivelatrice.

Quel che mi dice il campo di granturco nei brevi istanti che oso contemplarlo, è ciò che dice chi si è fatto aspettare e senza di lui non si poteva far nulla. “Eccomi”, dice semplicemente chi si è fatto aspettare, ma nessuno gli toglie lo sguardo astioso che gli viene gettato come a un padrone.
Invece, al cielo tra gli steli bassi do un’occhiata furtiva, come chi guarda di là dall’oggetto quasi in attesa che questo si sveli da sé, ben sapendo che nulla ci si può ripromettere che esso già non contenga, e che un gesto troppo brusco potrebbe farne traboccare malamente ogni cosa. Nulla mi deve quel campo, perché io possa far altro che tacere e lasciarlo entrare in me stesso. E il campo, e gli steli secchi, a poco a poco mi fruscìano e mi si fermano nel cuore. Tra noi non occorrono parole. Le parole sono state fatte molti anni fa. Continua →