Riparare i viventi

Riparare i viventi
Riparare i viventi, Maylis De Kerangal, Feltrinelli, 2015, 427 p.

Questo romanzo è un torrente in piena. Sono quasi alla fine, mi mancano una ventina di pagine, eppure mi sento ancora sbattuta qua e là dai flutti, incapace di trattenere le sporadiche boccate d’aria. Ѐ una corrente di emozioni per lo più toccanti, dolorose, ma anche cariche di speranza verso la vita, che ti entrano dentro come colpi progressivi nello stomaco abbattendo ogni tentativo di difesa emotiva, di distacco mentale. Fin dall’inizio ti senti turbato, scosso, eppure non puoi fare a meno di continuare la lettura. Perché è una storia che assorbe, catalizza e ingloba con (e in) tutti i sensi, quasi le stessi non solo leggendo ma anche vivendo le situazioni descritte. Succede infatti di sentirsi immersi, a più riprese, nello stato d’animo di una madre e di un padre che stanno perdendo un figlio, anzi, che l’hanno già perso a causa di un incidente (coma irreversibile), provando quindi sulla propria pelle l’impossibilità di sostenere un colpo simile, un impatto così devastante, con tutte le conseguenze che ne derivano.
Inutile, in questo caso, omettere i particolari della trama, perché quello che conta non è tanto la storia in sé stessa ma il modo in cui è stata immaginata, meditata e tessuta, vissuta dentro e poi restituita al lettore con il massimo del realismo. Spiegare quello che succede non toglie nulla alla suggestività del romanzo, che avrà comunque l’effetto, se deciderete di leggerlo, di sorprendervi e non di meno sconvolgervi.

Simon Limbres. Un diciannovenne vitale e dinamico, amante del surf e di tutte le cose che appassionano in genere i giovani d’oggi, un ragazzo alle prese con il suo primo amore e con un futuro pieno di sogni, che all’improvviso si ritrova catapultato sul confine tra la vita e la morte, in quel limbo da cui difficilmente si torna indietro. Tutto accade nel giro di pochi istanti, pochi miseri e dannati istanti di un’alba fatale, dopo una sessione di surf notturno con degli amici, forse per un colpo di sonno di chi si trova alla guida del veicolo che riconduce a casa, e per Simon che sta seduto nel mezzo, dove non c’è la cintura di sicurezza, è veramente un impatto tremendo. Ma non è tanto l’accaduto in sé che porta scompiglio durante la lettura, visto che di incidenti ne accadono purtroppo ogni giorno nel mondo, al punto che a volte ne siamo perfino assuefatti, ma è proprio il modo in cui l’autrice incanala la nostra attenzione in tutto ciò che accade dopo, immergendoci a getto continuo nelle reazioni emotive dei vari personaggi che fanno da contorno alla tragedia. Ѐ come se fosse riuscita lei per prima a calarsi anima e corpo nella storia, immedesimandosi alla perfezione nel dolore attonito e quasi muto della madre, nell’impotenza rabbiosa del padre, nei loro dubbi di fronte all’eventualità di donare gli organi del figlio appena deceduto, e anche nell’imbarazzo dei medici, degli specialisti, degli infermieri, che spesso faticano a trovare l’approccio giusto con i parenti della vittima, sempre attenti a barcamenarsi tra empatia e distacco, tra schiettezza e reticente cautela.

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Due piccole grandi storie

Il ballo, Irène Némirovsky, Adelphi, 2005, pp. 83
Il ballo, Irène Némirovsky, Adelphi, 2005, pp. 83

La signora Kampf entrò nello studio chiudendosi la porta alle spalle così bruscamente che tutte le gocce di cristallo del lampadario, mosse dalla corrente d’aria, tintinnarono d’un suono puro e leggero di sonagli. Ma Antoniette aveva continuato a leggere, china sullo scrittoio tanto da sfiorare la pagina con i capelli. La madre la osservò un istante senza parlare, poi le si piantò davanti a braccia conserte.

Così inizia Il ballo di Irène Némirovsky, con parole che evidenziano al massimo l’essenza caratteriale delle due protagoniste, madre e figlia, che già da queste prime battute appaiono in netta contrapposizione tra loro: quanto burbera e dispotica appare la prima, tanto mite e distaccata sembra l’altra. La scrittrice ci piazza fin da subito davanti agli occhi l’irritante signora Kampf, un’arrogante e volgare parvenu che si autoesalta all’idea di organizzare un sontuoso ricevimento in casa, in modo da sentirsi all’altezza della brillante società parigina. La figlia quattordicenne Antoinette, alle prese con le pulsioni tipiche dell’età, vorrebbe partecipare all’evento per fare il suo debutto in società, e già sogna di ballare al braccio di qualche affascinante giovane galantuomo. Il suo desiderio viene però subito infranto dalla stizzosa madre che, infervorata dal desiderio di essere l’unica a primeggiare, anche per compensare delle evidenti frustrazioni sociali, le impone un divieto assoluto di accedere alla festa nel giorno prestabilito. Ad Antoniette non resta quindi che piangere, quando è da sola nella sua camera, sfogando rabbia e lacrime sul cuscino…

Sporchi egoisti, ipocriti, tutti, tutti… Se ne infischiavano che lei soffocasse a forza di piangere, sola, al buio, che si sentisse misera e derelitta come un cane smarrito… Nessuno le voleva bene, nessuno al mondo… Ma non vedevano dunque – ciechi, imbecilli – che lei era mille volte più intelligente, più raffinata, più profonda di tutti loro, di tutta quella gente che osava educarla, istruirla… Arricchiti volgari, ignoranti… Ah, come aveva riso di loro per tutta la sera! E loro, naturalmente, non si erano accorti di nulla… Poteva piangere o ridergli sotto gli occhi, non la degnavano di uno sguardo… Una bambina di quattordici anni, una ragazzetta, è un qualcosa di spregevole e di infimo, come un cane… Con che diritto la mandavano a dormire, la punivano, la ingiuriavano? «Ah, vorrei che morissero!». Al di là del muro sentiva l’inglese respirare quietamente nel sonno. Antoinette ricominciò a piangere, ma più piano, assaporando le lacrime che le scorrevano agli angoli della bocca e all’interno delle labbra; d’un tratto la invase uno strano piacere: per la prima volta in vita sua piangeva così, senza smorfie né sussulti, in silenzio, come una donna… In seguito avrebbe pianto, per amore, le stesse lacrime… Ascoltò a lungo i singhiozzi risuonarle nel petto come un’ondata profonda e bassa nel mare… La sua bocca bagnata di lacrime aveva un sapore salmastro… Accese la lampada e si guardò con curiosità allo specchio. Aveva le palpebre gonfie, le guance rosse e chiazzate. Come una bambina che sia stata picchiata. Era brutta, brutta… Singhiozzò di nuovo.

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Eugénie Grandet

Eugénie Grandet,  Honoré de Balzac, Garzanti, 2013, 175 p.
Eugénie Grandet, Honoré de Balzac, Garzanti, 2013, 175 p.

Il romanzo, che si ascrive alla corrente realista e fa parte di quel grandioso affresco della società francese ottocentesca che va sotto il nome di “La Comédie humaine”, rispecchia la visione di Balzac per la borghesia del suo tempo, considerata gretta, arida, accecata dal guadagno e quindi condannata alla solitudine materiale e spirituale.
Uno dei personaggi centrali è infatti Felix Grandet, un ex bottaio che si è arricchito grazie a delle speculazioni e che nasconde dentro casa, in una stanza di cui solo lui ha le chiavi, soldi e preziosi accumulati negli anni, costringendo la moglie e la figlia Eugénie ad uno stile di vita morigerato, senza alcuna concessione ai più piccoli piaceri. Per darvi un’idea della sua grettezza, che non ha nulla da invidiare a quella dell’Arpagone di Molière, vi basti pensare che questo marito padre padrone costringe tutta la famiglia ad indossare abiti vecchi e logori, a vivere in camere malamente riscaldate d’inverno, a risparmiare addirittura sulle zollette di zucchero o sulla quantità di sapone da usare per il bucato. Ma la cosa più urtante di quest’uomo, che bisogna immaginarselo con una corporatura tozza e le spalle larghe, con la faccia tonda e la fronte rugosa, con i capelli gialli e brizzolati, con le labbra sottili e una grande verruca sul naso, è l’odiosa reazione che manifesta ogni volta che coglie in fallo qualcuno, quando si accorge che uno dei suoi tanti diktat è stato violato. In questi frangenti diventa acido e furioso, cinico e molesto, totalmente noncurante della sensibilità altrui, al punto da risultare fastidioso anche per il lettore. E questo va naturalmente a merito dello scrittore, che ha saputo rendere così bene le suddette situazioni.

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Una vita

Una vita, Guy de Maupassant, Garzanti, 2010, 216 p
Una vita, Guy de Maupassant, Garzanti, 2010, 216 p

Credeva che la sfortuna la perseguitasse direttamente, al punto che era diventata fatalista come un’orientale; e l’abitudine di veder sempre svanire i suoi sogni e rovinare le sue speranze le impediva qualunque iniziativa, e la rendeva esitante per giornate intere prima di compiere anche l’azione più insignificante, convinta com’era che tutto si sarebbe messo male e nel peggiore dei modi.

Se siete depressi, state lontani da questo libro. Allo stesso modo, se non sopportate i romanzi con un personaggio centrale che si considera vittima di una sorte infausta, incapace di vedere che tutto quello che accade nasce in realtà da una sua tendenza personale a subire ogni cosa, al punto che vi verrebbe voglia di entrare dentro le pagine per prenderlo a schiaffi o strangolarlo, evitate proprio di leggerla questa storia. Ma se già sapete che lo stile di Maupassant è in grado di incantarvi, perché ne apprezzate da sempre la scorrevolezza, la delicatezza, i passaggi a volte lirici e pittorici, perché vi piace il modo in cui sa porre in risalto lo stato d’animo dei vari personaggi, perché non vi annoia neppure quando indugia in qualche descrizione paesaggistica, allora non perdete altro tempo e buttatevi senza indugi sul romanzo in questione.

É infatti impossibile, malgrado l’atmosfera triste e tragica, non farvi avviluppare dal flusso montante di questa vicenda, che tiene avvinghiati al libro fino all’ultima pagina, sebbene capiterà anche a voi – ne sono più che convinta – di sentirvi spesso irritati dalle reazioni emotive di Giovanna, la protagonista, che definirla una piaga vivente sarebbe solo un gentile eufemismo. Forse con questo romanzo lo scrittore intendeva avvalorare più che mai le sue tesi pessimistiche sull’esistenza umana, visto che all’inizio ci presenta Giovanna in un momento di ingenua felicità e di belle speranze, e poi, un po’ alla volta, con un accanimento che ha qualcosa di sadico, la costringe a piegare la testa di fronte ad una cruda realtà, ad aprire gli occhi solo quando il danno è già fatto, rendendola oltretutto emotivamente inerme, portata a subire più che ad agire.

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Pierre e Jean

Pierre e Jean, Guy de Maupassant, Garzanti, 2011, 144 p.
Pierre e Jean, Guy de Maupassant, Garzanti, 2011, 144 p

Le opere di Maupassant vengono collocate nel filone del naturalismo francese, anche se per alcuni aspetti presentano dei caratteri originali. Per amicizia e affinità di interessi lo scrittore frequentò il gruppo di Mèdan, capeggiato da Émile Zola, e fu anche legato da stima e affetto a Flaubert, che gli fece spesso da guida paterna. Però la sua idea di forma espressiva, pur attenendosi in gran parte ai rigorosi dettami dei naturalisti, tendeva a concedere un po’ di spazio anche alla soggettività nella percezione delle cose. Per spiegare meglio questi suoi pensieri in fatto di letteratura, lo scrittore aveva scritto, proprio nella prefazione al romanzo Pierre e Jean, che ciascuno di noi si forma un’illusione del mondo, e compito dell’artista non è altro che riprodurre fedelmente quell’illusione; il suo valore consiste quindi nella completezza, nella chiarezza e nella trasparenza con cui è in grado di riprodurre una visione più completa della realtà stessa.
I naturalisti, com’è risaputo, tendevano ad osservare con metodo quasi scientifico i vari contesti sociali, da quelli più miseri a quelli benestanti, convinti che la realtà fosse sempre causa della condizione esistenziale di un individuo. L’uomo veniva studiato come prodotto di fattori ereditari, ambientali e storico-sociali, lasciando alle cose e ai fatti stessi descritti e narrati il compito di denunciarne la condizione sociale, il livello di degrado e le eventuali ingiustizie subite. Molto rappresentative, in tal senso, appaiono le opere di Émile Zola, che si focalizzavano in particolare sul proletariato industriale, così come lo sono quelle di Maupassant, che oltre a indagare gli strati sociali più marginali presentavano un ritratto veritiero della piccola borghesia, spesso analizzata nei suoi aspetti più bramosi e deplorevoli.

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Il bambino di Noè

Il bambino di Noè, Eric-Emmanuel Schmitt, Rizzoli, 2004, 124 p.
Il bambino di Noè, Eric-Emmanuel Schmitt, Rizzoli, 2004, 124 p.

Filosofo, drammaturgo e scrittore, Eric Emmanuel Schmitt è tra gli autori francesi più affermati degli ultimi tempi. In Italia è conosciuto soprattutto per il libro ‘Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano’, da cui è stato tratto un film con Omar Sharif nel ruolo del protagonista. Schmitt ha però scritto molte novelle e romanzi di successo, di cui mi limito a citare Odette Toulemonde, Piccoli crimini coniugali, La sognatrice di Ostenda, La mia storia con Mozart. Un accenno lo merita anche il fantastorico “La parte dell’altro”, dove l’autore si è divertito a rielaborare l’immagine e la personalità di Hitler sulla base di un percorso esistenziale alternativo, completamente diverso da quello che è passato alla Storia. Una trama inusuale e a suo modo anche bizzarra, che però fa riflettere.

Ma ora vorrei soffermarmi su questo racconto tanto breve quanto intenso, capace di far vibrare le corde più profonde del cuore. Ambientato nel Belgio occupato dai nazisti durante la seconda guerra mondiale, narra delle vicissitudini di un ragazzino ebreo, un certo Joseph Bernstein, che dopo essere scampato per miracolo alle deportazioni trova rifugio nel collegio gestito da Padre Pons. Quest’ultimo è un personaggio veramente singolare, perché non si limita a salvaguardare le vite umane degli ebrei ma si preoccupa anche di preservarne il retaggio storico e culturale, elevandosi al di sopra delle ataviche divergenze che hanno sempre contrapposto il cristianesimo all’ebraismo. Padre Pons infatti, pur essendo cattolico, custodisce nella cappella sotterranea della chiesa una “collezione” di libri e oggetti sacri di tradizione ebraica, alla maniera di un resuscitato Noè che tenta di proteggere dal “diluvio nazista” non solo i bambini ebrei – come appunto Joseph – ma anche le loro origini, le loro personali credenze, in altre parole la loro “identità”. La figura di questo Padre e la cripta segreta richiamano quindi alla mente le mitiche figure di Noè e l’Arca, destinate a salvaguardare un mondo in dissoluzione attraverso lo straordinario potere della conservazione. E infatti il ragazzino scoprirà, raccogliendo e perpetuando nel tempo il lascito di tale missione, che non è la prima volta che il sacerdote salva e custodisce tutto ciò che gli uomini tentano di distruggere e di far dimenticare.
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Causa di forza maggiore

Causa di forza maggiore, Amélie Nothomb, Voland, 2009, 114 p.
Causa di forza maggiore, Amélie Nothomb, Voland, 2009, 114 p.

Ho aperto questo blog per parlare soprattutto delle letture che ho gustato con piacere, ma credo sia giusto parlare ogni tanto anche di quelle che mi sono rimaste sullo stomaco. Stavolta proprio non ci siamo con Amélie Nothomb: la storia inizia in modo avvincente ma poi, nel giro di poche pagine, si arena in una situazione banale e ripetitiva. Sorvoliamo pure sull’immagine della copertina, benché fuorviante visto che non corrisponde per niente al contenuto del romanzo, ma per tutto il resto bisogna avere il coraggio di stendere un pietoso velo, ammettendo che questo libro non è tra i parti migliori della geniale scrittrice.
Per farla breve, la vicenda tratta di un certo Baptiste Bordave, che dopo una strana conversazione avuta con un anonimo interlocutore, che verteva sulle eventuali contromisure da adottare nel caso in cui ci si trovasse con un perfetto sconosciuto che ci muore in casa, si ritrova il giorno dopo a dover affrontare proprio una condizione simile… Un signore suona infatti a caso, o forse non accidentalmente, il suo campanello, e con la scusa di un guasto all’automobile gli chiede di poter fare una telefonata. Ma mentre compone il numero  viene colpito all’improvviso da un infarto, si accascia e subito muore.
A questo punto, dopo lo sgomento iniziale, a Baptiste si aprono due possibilità: chiamare l’ambulanza e la polizia, con il timore però, memore della conversazione avuta la sera precedente, di dover subire sospetti e lunghe indagini da parte degli inquirenti, oppure trasformare questo fatto inaspettato in un’occasione per cambiare completamente vita, rubando l’identità a un defunto che, altrettanto casualmente, gli assomiglia per corporatura e aspetto. Un vero e proprio salto nel vuoto “per conoscere l’ebbrezza del mare aperto”, con una caduta però su cuscini morbidi e confortevoli, visto che il pacchetto omaggio comprende anche una villa da favola, una splendida Jaguar e una moglie giovane e carina. Il morto era infatti un ricco signore svedese dal passato ambiguo e pieno di ombre, con probabili e possibili agganci nei servizi segreti, anche se tale situazione non viene mai chiarita a sufficienza nel corso del romanzo.
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Igiene dell’assassino

Igiene dell’assassino, Amélie Nothomb, Le Fenici, 2009, 175 p
Igiene dell’assassino, Amélie Nothomb, Guanda, 2009, 175 p

Concedetemi di aprire di nuovo il sipario su questa bizzarra scrittrice, anche se finora non ho avuto il piacere di conoscere altri suoi fan (a parte la blogger di Diari alaskani). Lo so, fa uno strano effetto vedere Amélie nelle foto con quel cappellaccio da fattucchiera conficcato sulla testa, avvolta in un pastrano nero che neppure Morticia Addams avrebbe il coraggio di indossare, e con quel make-up cadaverico che contrasta di brutto con il colore del rossetto, però bisogna ammettere che questa donna, quando mette mano alla penna, è capace di dar vita a qualcosa di unico e irrepetibile, soprattutto in termini di fulminante ironia. Per lei la penna è come un bisturi affilato da incidere nel foglio, o meglio nella psiche di quei personaggi che inventa con tanta originale maestria, e sinceramente non mi interessa sapere se questo nasce dal bisogno di esorcizzare qualcosa di intimo attraverso la scrittura, così come non mi interessa scoprire fino a che punto ostenti sé stessa a scopo pubblicitario, perché a me basta e avanza “godermi” il frutto del suo talento.
I suoi romanzi, che partorisce con la frequenza di tre all’anno (così come afferma nelle interviste, anche se poi ne pubblica solo uno), si collocano al di fuori di ogni schema abituale e sono valorizzati da una scrittura schietta e trasgressiva, che non si pone limiti nell’indagine delle miserie umane. Le situazioni paradossali che Amélie ama affrontare non sono quindi fini a se stesse, ma si rivelano sempre un pretesto per esplorare a fondo ciò che si cela dietro le apparenze. Al suo occhio indagatore, a cui non sfugge nulla, interessa più che altro esplorare l’animo umano, che tende a denudare fino all’estremo per scovarci ogni sorta di delirio o perversione, senza per questo scivolare in descrizioni volgari o scadenti.

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