Uccellino del paradiso

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Questo è il mio primo incontro (e non sarà l’ultimo) con Joyce Carol Oates, scrittrice newyorkese dalla penna prolifica e infaticabile, attiva fin dagli anni ’70 e capace di spaziare con grande padronanza in diversi generi e forme letterarie. Ha pubblicato romanzi, racconti, poesie, saggi critici e lavori teatrali, cercando sempre di coniugare la qualità con la quantità. Nel tempo le sono stati tributati numerosi premi e riconoscimenti ed è stata candidata più volte al premio Pulitzer e al Nobel. Ha inoltre lavorato per trent’anni all’università di Princeton, dove teneva seminari di scrittura creativa.

Che dire? Ammetto di esserne rimasta sedotta, in particolare per lo stile molto coinvolgente che, nonostante la prolissità e ripetitività di talune descrizioni (un centinaio di pagine in meno avrebbe sicuramente giovato al romanzo), ha il potere di mantenere sempre viva l’attenzione. Ci sono stati dei momenti, infatti, in cui mi sembrava di essere dentro la mente di Krista Diehl (grazie anche al narrato in prima persona, che favorisce l’immedesimazione da parte del lettore), un’adolescente timida e silenziosa alle prese con “il guaio”, come lo definisce lei stessa, che ha sconvolto la sua famiglia. Una bambina in crescita costretta ad affrontare una portata di eventi che piegherebbe anche l’adulto più scafato. Da una parte un padre amatissimo, grande lavoratore ma anche alcolista e fedifrago, che sarà appunto al centro di un misterioso delitto nella veste di sospettato, evento che darà il colpo di grazia a un ménage coniugale già zoppicante da tempo; dall’altra una madre dura e fredda, lesa nell’orgoglio dal comportamento del marito e per tale motivo ancora più acida, palesemente incapace di dare ai figli (Krista e Ben) il necessario supporto emotivo/morale. E sullo sfondo l’ombra dell’orrendo crimine, rievocato più volte nei ricordi dei vari personaggi, che ha visto come vittima Zoe Kruller, una seducente cantante di bluegrass che di giorno lavorava in una cremeria e di notte si esibiva in un locale della zona. La bella Zoe dalla carnagione lattea, dai capelli biondo fragola e dal sorriso contagioso (dettagli ripetuti fino allo sfinimento nel libro), che quando cantava Little Bird of Heaven (il brano country che dà titolo al romanzo) muovendosi sul palco con i tacchi alti, inguainata in un abito rosso e luccicante, mandava il pubblico in visibilio. La bella Zoe che sorrideva e ammiccava a tutti, mettendo in mostra la scollatura ogni volta che si inchinava, e che guarda caso intratteneva una relazione proprio con Eddy Diehl, il padre della timida e silenziosa adolescente. Un uomo in realtà debole, non sempre capace di controllare le proprie pulsioni, che per il fatto di avere inizialmente mentito alla polizia risulta ora il maggiore indiziato. L’altro sospettato è Delray Kruller, ex marito della vittima e padre di un adolescente irrequieto, Aaron, di cui l’autrice seguirà le vicende parallelamente a quelle di Krista, attraverso due percorsi alternati che tenderanno a incrociarsi più volte…

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Il vecchio e il mare

È stato un bel viaggio, quello al fianco di Santiago. Anche disagevole, a dire il vero, come disagevole e altalenante (oltre che ricca di fascino) è la vita stessa, con tutto quel succedersi di alti e bassi, di conquiste e perdite, di esaltazioni e abbattimenti. Senza i quali non si riuscirebbe ad apprezzare fino in fondo il sapore della riuscita, nel momento in cui diventa finalmente una certezza. Senza i quali sarebbe forse anche impossibile accettare la sconfitta come occasione per riflettere, per guardarsi meglio dentro, facendo così dell’umiltà una virtù.

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Il vecchio e il mare, Ernest Hemingway, Mondadori, 2014, 125 p.

La trama di questo breve romanzo (o lungo racconto) è talmente nota che penso di non far torto a nessuno nel riportarla a grandi linee; in caso contrario, evitate di proseguire la lettura. Al centro della vicenda c’è quindi Santiago, un vecchio pescatore cubano la cui misera vita è rischiarata solo dall’affetto di un ragazzino, Monolito, a cui insegna i rudimenti della pesca. Sono però tre mesi che il vecchio rientra dai suoi viaggi per mare a mani vuote, come se fosse perseguitato dalla scalogna (considerato salao – ossia spacciato, finito – anche dalla gente del posto, che lo guarda con compatimento), per cui una mattina decide di riprendere il largo, questa volta senza il ragazzo, per sfidare di nuovo la sorte. All’inizio questa sembra sostenerlo, visto che abbocca all’amo un magnifico marlin di oltre cinque metri, il pesce più grosso che gli sia mai capitato di incontrare in tanti anni, e visto anche che riesce dopo lunghi e spossanti tentativi ad ucciderlo e legarlo alla sponda della barca. Ma nel momento in cui naviga sulla rotta del ritorno ecco rimpiombare la sfortuna sotto forma di ripetuti attacchi da parte di un branco di pescecani, che in breve tempo spolpano il grosso pesce lasciandone solo la carcassa, malgrado tutti gli sforzi del vecchio per colpirli e respingerli nel tentativo di difendere la sua conquista.

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Prima gli idioti

Prima gli idioti, Bernard Malamud, EPUB, Minimum Fax, 243 p.

Nato a New York nel 1914, figlio di immigrati ebrei di origine russa, Bernard Malamud viene abitualmente accostato ad altri due grandi esponenti della letteratura ebraico-americana del secondo Novecento, quali Saul Bellow e Philip Roth, anche se in realtà avrebbe poco da spartire con gli illustri colleghi in fatto di stile e contenuti. Dei tre è infatti l’autore che ha ripreso in misura maggiore la tradizione del racconto centroeuropeo, subendo anche l’influsso del mito e del tono magico che caratterizza i racconti popolari. Come ha scritto Alessandro Piperno, in un articolo che ho trovato interessante, sono in particolare Babel, Kafka, Schultz, Singer e, per alcuni aspetti, il nostro Svevo i suoi cugini più prossimi. Mentre Bellow appare appunto più distante, considerando anche il fatto che per i suoi personaggi «l’America è un’opportunità straordinaria, la patria da conquistare con spavalderia, mentre per Malamud (e per i suoi personaggi) l’America è un problema, l’ennesimo luogo sulla terra ostile agli ebrei e alle brave persone».

Le storie di Malamud, che abbiano o meno degli ebrei come protagonisti, vogliono infatti rappresentare la sofferenza di ogni essere umano al di là dell’origine, della razza d’appartenenza, assumendo in tal senso un valore universale. Come dire che il travaglio esistenziale dei personaggi, la loro ricerca di senso e direzione, la loro ansia di soddisfare piccoli e grandi bisogni mai del tutto soddisfatti, sono esperienze che bene o male riguardano tutti, che ci toccano da vicino. Oltretutto presentate con un realismo che oscilla tra l’ironico e l’amaro e che ogni tanto si concede, come accennato all’inizio, qualche fuga nel surreale.
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Sunset Limited

Sunset Limited, Cormac McCarthy, Einaudi, 2010, 115 p.

BIANCO: Be’, io non l’ho vista.
NERO: Ero lì fermo al binario. Pensavo ai fatti miei. Ed ecco che arrivi tu. A tutta birra.
BIANCO: Mi ero guardato attorno per essere sicuro che non ci fosse nessuno. Soprattutto bambini. E non c’era anima viva in giro.
NERO: No. Soltanto io
BIANCO: Be’, non so davvero dove potesse essere.
NERO: Mm. Ha proprio deciso di darmi il tormento con questa storia, eh, professore? Magari ero dietro un palo o che ne so.
BIANCO: non c’era nessun palo.
NERO: Allora che mi vuoi dire? Pensi che un angelone nero grande e grosso sia stato mandato giù dal cielo per acchiappare il tuo bel culetto bianco all’ultimo secondo e salvarti da una brutta fine?

Il dialogo si svolge nella cucina di una casa popolare, in un quartiere nero di New York. Intorno a un tavolo sul quale è appoggiata una Bibbia stanno seduti due uomini, uno di fronte all’altro. Un bianco di mezza età e un nero corpulento. Fino a qualche ora fa, prima che il nero strappasse il bianco alle rotaie del Sunset Limited sotto cui stava per lanciarsi, ancora non si conoscevano. Ma quello era solo l’inizio, ora i due devono andare oltre. E così parlano, «da prospettive, lingue e colori antitetici, fra picchi di comicità e abissi di disperazione senza contatto possibile oltre all’ingegno folgorante della penna che li ha partoriti».
Questo è quanto più o meno scritto sul retro della copertina, a cui resta ben poco da aggiungere in realtà. Anche perché si tratta di una pièce teatrale che per essere apprezzata al meglio andrebbe letta di persona, dalla prima all’ultima riga. Ma anche se il tentativo di spiegarla mi appare abbastanza riduttivo e passibile di fraintendimenti, proverò comunque a darvene un’idea il più chiara possibile, magari con l’aiuto di qualche estratto.

Iniziamo intanto col dire che quello messo in scena da McCarthy è un dibattito sul senso dell’esistenza che, passando da momenti calmi ad altri più concitati, con intermezzi a volte anche ironici, procede su due linee parallele destinate a non convergere mai.
Da una parte c’è il Bianco, l’aspirante suicida, un uomo ormai disilluso dalla vita e dal mondo, un intellettuale cinico e refrattario a qualsiasi ipotesi consolatoria, mentre dall’altra c’è il Nero, un avanzo di galera illuminato dalla fede e ormai devoto alla Bibbia, che avendo salvato la pelle al primo si sente adesso in dovere di convertirlo, di restituirlo fiducioso alla vita. Il Bianco però è un caso difficile, un osso duro. Vede nel declino del mondo l’evidente sconfitta dei propri ideali. Non crede più in una serie di cose in cui credeva una volta, “cose culturali” (così le chiama, riferendosi a libri, musica, arte) che dovrebbero stare alla base della civiltà e che nella società di oggi, a suo parere, non contano più.

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Il richiamo della foresta – in lettura

London Il richiamo della foresta

Buck arrancava alla testa della sua muta come in un incubo. Tirava quanto poteva; quando non poteva più tirare, si lasciava cadere e rimaneva giù finché i colpi della frusta o della mazza lo facevano rialzare. Il suo bel manto peloso aveva perso tutta la gagliardia e lo splendore. I peli ricadevano flosci e infangati, o macchiati di sangue rappreso dove la mazza di Hal lo aveva percosso. I suoi muscoli si erano dissipati diventando fasci nodosi, e i cuscinetti di carne erano scomparsi, tanto che ogni costola e ogni osso del suo scheletro si delineavano nettamente attraverso la pelle cascante che si aggrinziva in vuote pieghe. Era una cosa da spezzare il cuore: solo il cuore di Buck era infrangibile. L’uomo dal maglione rosso ne aveva avuto la prova. E lo stato di Buck era lo stato dei suoi compagni, veri scheletri ambulanti.
In totale erano sette, compreso lui. Nella loro estrema miseria erano diventati insensibili al morso della frusta o al colpo della mazza. Il dolore delle percosse era ottuso e distante, proprio come sembravano ottuse e distanti tutte le cose che i loro occhi vedevano e le loro orecchie sentivano. Non erano vivi nemmeno per metà, anzi nemmeno per un quarto. Erano né più né meno che sacchi di ossa in cui guizzavano debolmente sprazzi di vita. Quando si faceva una sosta si lasciavano cadere fra le tirelle come fossero morti, e quegli sprazzi si offuscavano e sbiadivano e sembravano abbandonarli. E quando la mazza o la frusta li colpivano, gli sprazzi guizzavano debolmente, ed essi si rimettevano in piedi e riprendevano ad arrancare.

Angosciata da tutte le botte che Buck e gli altri cani da slitta si stavano prendendo (ma è un libro adatto per bambini, questo? ci sono dei pezzi che sono tremendi per la violenza inflitta agli animali), ho finalmente tirato un sospiro di sollievo con l’entrata in scena di John Thornton. Sono alla fine del quinto capitolo.

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Per chi suona la campana

Per chi suona la campana, Ernest Hemingway, Mondadori, 1996, 501 p.
Per chi suona la campana, Ernest Hemingway, Mondadori, 1996, 501 p.

Andavano tra l’erica del prato montano. Robert Jordan sentiva l’erica solleticargli le gambe, sentiva sulla coscia il peso della pistola nella fondina, sentiva il sole sulla testa, sentiva fredda sulla schiena la brezza delle vette nevose e nella mano sentiva la mano della ragazza, forte e ferma, le dita intrecciate alle sue. Da quella mano, da quella palma che riposava sulla propria, dalle dita insieme intrecciate e dai polsi incrociati, dalla mano di Maria, dalle sue dita, dal suo polso, gli veniva un che di fresco, come il primo soffio lieve del mattino che passando sul mare increspa appena la superficie vitrea e calma dell’acqua, lieve come una piuma che ti sfiora le labbra o come una foglia che si stacca e cade quando non soffia un alito; così lieve che egli lo sentiva solo col contatto delle loro dita, ma che si faceva così forte e veemente e urgente, così doloroso e impetuoso quando le dita si serravano e le palme e i polsi aderivano, che era come se una corrente gli percorresse il braccio riempiendogli tutto il corpo di uno svuotante, doloroso desiderio. Col sole che le brillava sui capelli color grano e sul bel viso dolce e liscio d’oro bruno e sulla curva del collo, egli le rovesciò indietro la testa e stringendola a sé la baciò. La sentì tremare mentre la baciava: se la premette tutta, forte, contro di sé e sentì attraverso le due camice cachi i seni di lei sul suo petto, sentì i piccoli seni duri, e allora le sbottonò la camicia e la baciò, e lei teneva la testa arrovesciata, stretta nelle sue braccia. (….) Ci fu poi per Maria l’odore dell’erica schiacciata e la ruvidezza degli steli piegati sotto la sua testa e il sole brillò sugli occhi chiusi. Per tutta la sua vita egli non potrà dimenticare la curva di quel collo, e la testa rovesciata tra le radici dell’erica, e le labbra che si muovono appena, e le ciglia palpitanti sugli occhi chiusi per scacciare il sole, e ogni cosa; per Maria tutto era rosso e arancione e d’oro per il sole sugli occhi chiusi, e tutto aveva il colore; tutto, il riempirsi, il possedere, il dare, tutto aveva quel colore stesso, in una cecità che era di quel colore. Per lui era una via oscura che non portava in nessun posto, e ancora in nessun posto, di nuovo in nessun posto, di nuovo ancora in nessun posto e sempre eternamente in nessun posto, coi gomiti duramente affondati nella terra, nel buio, senza fine verso nessun posto, sempre e continuamente sospeso verso l’ignoto nessun posto, ma per rinascere di nuovo e sempre in nessun posto, insopportabilmente ora, su, su, su e in nessun posto, e poi bruscamente, roventemente, tutto il “nessun posto” è svanito e il tempo assolutamente fermo e loro due lì, il tempo essendosi fermato: ed egli sentì la terra mancare sotto di sé e sprofondarsi.

Un crescendo di passione descritto in un simile modo, con quelle parole ripetute che rendono l’attimo ancora più intenso fino al culmine dell’estasi, non mi era mai capitato di leggerlo. Affermare che questo brano è meraviglioso, sarebbe dir poco. Ma questo non è un romanzo d’amore. Sì, c’è anche quello, che proprio in virtù del contesto difficile in cui si sviluppa acquista particolare risalto, ma non è un romanzo d’amore. È una vicenda di guerra, con aspetti anche crudi e brutali, che si rifà a un pezzo di Storia del secolo scorso, miscelando realtà e fantasia con consumata esperienza. Un romanzo di cinquecento pagine per descrivere una vicenda che si snoda in tre giorni. Ma in questo breve lasso di tempo l’autore è riuscito a condensare un intero conflitto, con tutto il dramma umano che ne consegue.
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Furore

Furore, John Steinbeck, Bompiani, 2015, p.638
Furore, John Steinbeck, Bompiani, 2015, p.638

Questo romanzo è un capolavoro, ma non sono di certo la prima a dichiararlo. Fin dalla sua uscita in America, nel lontano 1939, riscosse un successo straordinario, con mezzo milione di copie vendute. Se ne discuteva e dibatteva ovunque, alla radio, nei giornali, nelle scuole, e alcuni lo contestarono come propaganda comunista poiché portava alla luce lo sfruttamento perpetrato dai grossi latifondisti californiani sui migranti provenienti dal Midwest. Ma il fatto che il romanzo denunciasse questa cosa non ne impedì comunque la diffusione e il clamoroso successo. Quando invece arrivò qui da noi in Italia, negli anni ’40, proprio nel periodo in cui Mussolini entrava in guerra a fianco della Germania nazista, subì dei tagli impietosi da parte della censura. Ora possiamo finalmente leggere il romanzo nella sua versione integrale, senza aggiustamenti e rimaneggiamenti, grazie a questa nuova traduzione dei Tascabili Bompiani che ce lo presenta in tutta la sua potenza espressiva. Doveroso aggiungere che nel corso del tempo il libro vinse il National Book Award e il Pulitzer Prize, e che nel 1962 gli fu dedicata una menzione speciale in occasione del Premio Nobel al suo autore. Nel 1940 John Ford ne ricavava pure un film, considerato ancora oggi il più intenso dei suoi capolavori.

Un libro che quindi all’epoca scottava, che risultava urtante per le classi dominanti, quelle monopolistiche e abbienti, visto che metteva in campo i disagi e le miserie dei lavoratori, dei migranti che lavoravano come braccianti nei frutteti, nei campi di cotone. Anche perché faceva intendere il rischio (e la necessità) di una rivolta da parte degli stessi, o perlomeno il diritto di organizzarsi in sindacati in modo da non essere continuamente calpestati. Un vero e proprio romanzo di denuncia sociale, che aveva preso spunto da diversi articoli che Steinbeck stesso aveva pubblicato nel 1936, dopo essersi documentato a lungo sulle condizioni di vita della gente che, stremata dalla fame e attratta da allettanti offerte di lavoro (che poi non si rivelavano tali), abbandonava la terra d’origine per raggiungere la California.
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I racconti di Flannery O’Connor

Tutti i racconti, Flannery O’Connor, Bompiani, 2013, 606 p.
Tutti i racconti, Flannery O’Connor, Bompiani, 2013, 606 p.

Scrivo come scrivo perché sono (non sebbene sia) cattolica. È un fatto, tanto vale dirlo a chiare lettere. Però sono una cattolica singolarmente dotata di coscienza moderna, delle specie che Jung definisce astorica, solitaria e colpevole.

Così si descriveva Flannery O’Connor in una lettera a un’amica, cercando di spiegarle quanto la fede cristiana la guidasse sulla strada dell’ispirazione artistica senza per questo renderla un’esaltata, una timorata di Dio. Anzi, la scrittrice era in genere disgustata dagli individui che si autocompiacevano della loro devozione religiosa, pensando per questo di essere perfetti o migliori di altri (e non per niente nei suoi racconti li metteva duramente alle strette, gli ipocriti di questo tipo), così come non sopportava chi scriveva romanzetti edificanti con la pretesa di insegnare ai lettori delle facili scorciatoie morali. Ma con quella frase ci fa anche capire quanto sia stata per lei importante, se non fondamentale, la fede in Dio, perché senza quella non avrebbe mai potuto scrivere quello che ha scritto e nel modo in cui l’ha scritto.
Il fatto è che la credenza nei dogmi cristiani non le intralciava in alcun modo la visione artistica che aveva del mondo, ma al contrario gliene ampliava gli orizzonti. Flannery era infatti convinta che per cogliere a fondo il male, anche nei suoi angoli più oscuri, fosse necessaria una qualche luce e che questa potesse giungere solo dalla fede, che considerata in questi termini si rivelava una lente di ingrandimento sulla realtà. Anzi, era addirittura del parere che «gli scrittori che vedono alla luce della loro fede cristiana saranno, di questi tempi, i più fini osservatori del grottesco, del perverso e dell’inaccettabile» perché «non vi sarà niente nella vita di troppo grottesco, o troppo non cattolico, da non poter fornire materiale». Un modo interessante e suggestivo di considerare certe cose, che probabilmente le derivava non solo dall’educazione cattolica ortodossa ma anche da svariate letture di stampo religioso, filosofico e storico-mitologico che aveva smaltito nel corso degli anni, da San Tommaso d’Aquino al gesuita Teilhard de Chardin, dal filosofo Jacques Maritain a mistici come Teresa d’Avila, dallo storico Mircea Eliade a Carl Gustav Jung. Libri che alternava volentieri con quelli dei suoi narratori preferiti, tra i quali spiccavano Henry James, Conrad, Poe, Hawthorne, oltre una bella selezione di autori russi e francesi. Tutte letture che, prese nel loro complesso, le avevano modellato una particolare visione della vita e un altrettanto particolare modo di esprimerla nella sua scrittura.
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