Marco e Mattio

Marco e Mattio, Sebastiano Vassalli, ET Einaudi, 1994, 315 p.
Marco e Mattio, Sebastiano Vassalli, ET Einaudi, 1994

Questa è una storia che per molti aspetti colpisce e impressiona, difficile dimenticarsela. Una storia che parla di miseria, di fame, di pazzia, di follia redentrice, il tutto sullo sfondo di grossi cambiamenti epocali. Anche in questo caso, com’era accaduto nel romanzo La chimera, la trama si modella sulla base di un’accurata ricerca documentaria che in alcune parti si avvale dell’invenzione. I riflettori sono puntati non sui grandi personaggi storici, che pur essendo presenti rimangono sullo sfondo del romanzo, ma sulla gente umile e povera, che rappresenta da sempre la categoria più vessata del tessuto sociale. Vassalli tendeva infatti a prediligere le vicende dei singoli che si incrociano con la Grande Storia, le storie di uomini e donne spesso sconosciuti o quasi del tutto ignoti, che spesso e volentieri ripescava dal buio dell’oblio con tutto il loro carico di esperienza vissuta e patita. Era quindi un narratore di storie più che un romanziere nel senso classico del termine, ma in fondo raccontare – come ha scritto Paolo Mauri nel retro copertina – è pur sempre salvare, raccontare è anche un’opera di perplessa pietas verso vite altrimenti estinte per sempre.

Il periodo storico tracciato nel romanzo è quello a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento, che vide la fine della Repubblica di San Marco (le cui classi nobiliari opprimevano da decenni le campagne venete con pesanti dazi) per opera delle truppe napoleoniche francesi, le quali al posto della libertà promessa si dedicarono a soprusi e saccheggi, per poi cedere da lì a poco il Veneto all’Impero Austriaco, che tolto un breve periodo ci spadroneggiò fino all’unità d’Italia, imponendo nuove e pesanti tasse alla popolazione locale. Erano quindi anni turbolenti per l’Italia, segnati dall’alternanza di continui domini stranieri e da tentativi di sommosse contadine soffocate subito nel sangue. Famosa ad esempio quella capeggiata dal brigante Desiderio Manfroi, detto l’Userta, che cercò di ribellarsi ai soprusi dell’aristocrazia bellunese, di volta in volta compromessa con il dominatore straniero di turno, forse più con l’intenzione di trafugare per sé dei beni preziosi che non per vero amor di patria, come suppone anche Vassalli nel libro. Il quadro che il romanzo dipinge di questo periodo storico è comunque sconsolante, perché alla fine chi ci riemetteva era sempre la classe rurale, che restava povera, cenciosa e affamata, mentre i ceti aristocratici trovavano sempre il modo, grazie ad un’alleanza o all’altra, di preservare vecchi e nuovi privilegi.

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Furore

Furore, John Steinbeck, Bompiani, 2015, p.638
Furore, John Steinbeck, Bompiani, 2015, p.638

Questo romanzo è un capolavoro, ma non sono di certo la prima a dichiararlo. Fin dalla sua uscita in America, nel lontano 1939, riscosse un successo straordinario, con mezzo milione di copie vendute. Se ne discuteva e dibatteva ovunque, alla radio, nei giornali, nelle scuole, e alcuni lo contestarono come propaganda comunista poiché portava alla luce lo sfruttamento perpetrato dai grossi latifondisti californiani sui migranti provenienti dal Midwest. Ma il fatto che il romanzo denunciasse questa cosa non ne impedì comunque la diffusione e il clamoroso successo. Quando invece arrivò qui da noi in Italia, negli anni ’40, proprio nel periodo in cui Mussolini entrava in guerra a fianco della Germania nazista, subì dei tagli impietosi da parte della censura. Ora possiamo finalmente leggere il romanzo nella sua versione integrale, senza aggiustamenti e rimaneggiamenti, grazie a questa nuova traduzione dei Tascabili Bompiani che ce lo presenta in tutta la sua potenza espressiva. Doveroso aggiungere che nel corso del tempo il libro vinse il National Book Award e il Pulitzer Prize, e che nel 1962 gli fu dedicata una menzione speciale in occasione del Premio Nobel al suo autore. Nel 1940 John Ford ne ricavava pure un film, considerato ancora oggi il più intenso dei suoi capolavori.

Un libro che quindi all’epoca scottava, che risultava urtante per le classi dominanti, quelle monopolistiche e abbienti, visto che metteva in campo i disagi e le miserie dei lavoratori, dei migranti che lavoravano come braccianti nei frutteti, nei campi di cotone. Anche perché faceva intendere il rischio (e la necessità) di una rivolta da parte degli stessi, o perlomeno il diritto di organizzarsi in sindacati in modo da non essere continuamente calpestati. Un vero e proprio romanzo di denuncia sociale, che aveva preso spunto da diversi articoli che Steinbeck stesso aveva pubblicato nel 1936, dopo essersi documentato a lungo sulle condizioni di vita della gente che, stremata dalla fame e attratta da allettanti offerte di lavoro (che poi non si rivelavano tali), abbandonava la terra d’origine per raggiungere la California.
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Fame

Fame, Knut Hamsun, Adelphi, 2009, 186 p.
Fame, Knut Hamsun, Adelphi, 2009, 186 p.

Ci siamo mai chiesti quali possano essere le conseguenze di un digiuno prolungato e non voluto? Possiamo immaginarcelo cosa significhi stare per alcuni giorni senza mangiare? Senza mangiare veramente? Fino al punto di sentirsi sconvolti dalla brutalità dei morsi che attanagliano lo stomaco, spaventati dalla debolezza che si impossessa di ogni arto, storditi dall’angoscia che obbliga la mente a farneticare… E come se non bastasse, sentirsi soprattutto tormentati da quell’urgenza fisiologica di nutrirsi che non dà pace, da quella necessità di ingurgitare cibo, di ingurgitarne tanto, con una bramosia che non concede tregua e che infierisce in ogni momento della giornata, fino a quando un’occasione soddisfa finalmente tale necessità, che però viene quasi subito mortificata da un tremendo conato di vomito, perché lo stomaco non è più abituato a trattenere nessun alimento…

É possibile figurarselo tutto questo senza averlo vissuto in prima persona? Per quanto mi riguarda ne sono poco convinta, e infatti fin dal giorno in cui ho letto per la prima volta questo libro, che tratta appunto dei travagli causati dalla fame, mi sono sempre chiesta se all’autore fosse capitata la disgrazia di provare un’esperienza simile per riuscire a descriverla così bene. La sofferenza patita dal protagonista del romanzo è infatti di una tale portata e intensità, accentuata anche dalla narrazione in prima persona, che sospettarlo è quasi d’obbligo. Sono quindi andata a caccia di ulteriori informazioni e ho scoperto che la storia è in gran parte autobiografica; forse lo scrittore non sarà proprio arrivato al punto di dormire sulle panchine, e magari non avrà nemmeno sfiorato così tante volte la morte, ma l’infanzia passata nella miseria c’è stata, così come la continua ricerca di un lavoro nello strenuo tentativo di sopravvivere decorosamente, fino al raggiungimento dei primi successi letterari.

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Mentre morivo

Mentre morivo, William Faulkner, Adelphi, 2000, 232 p.
Mentre morivo, William Faulkner, Adelphi, 2000, 232 p.

Questo libro è un osso duro da recensire. L’ho riletto in questi giorni, a distanza di qualche tempo, e sebbene ne sia stata nuovamente colpita mi sono anche resa conto che non è facile da presentare.
Come sia riuscito Faulkner a dare forma ad un tale parto letterario, per di più – così dicono – mentre lavorava di notte come fuochista in una centrale elettrica nell’estate del 1929, usando come tavolino una scomoda carriola capovolta, è un vero mistero. Credo che solo una mente geniale e pazzoide potrebbe riuscire in un’impresa simile, considerando anche la complessità e la qualità del testo. Del resto un genio, per essere veramente tale, deve pur avere una componente di follia che gli scorre nelle vene, perché è proprio questa che spesso gli permette di vedere oltre, di cogliere quegli aspetti che alle persone ordinarie invece sfuggono.

Diciamo subito che anche in questo romanzo, come nel bellissimo L’urlo e il furore, assistiamo alla graduale decadenza di un nucleo familiare, seppure in forme e modalità diverse. Immaginatevi una coppia e cinque figli che vivono nella contea di Yoknapatawpha nel Mississippi (luogo ormai mitico e ricorrente nelle opere di Faulkner), dove conducono una vita parca e stentata, fatta di miseria e sacrifici. Immaginate poi che la mater familias, gravemente malata, si faccia promettere in punto di morte dal marito di essere trasportata con la bara fino nella sua terra d’origine, per poter riposare eternamente accanto ai suoi avi. E poi immaginatevi questo strampalato convoglio alle prese con un viaggio tanto arduo quanto insidioso, minacciato da acquazzoni, diluvi, fiumi in piena, ponti e strade interrotte, incendi inaspettati e via dicendo, che mettono più volte a repentaglio l’integrità della bara. Insomma, una vera e propria via crucis che nonostante i giorni di viaggio prolungati dagli imprevisti, con tanto di avvoltoi al seguito attratti dal fetore della salma in putrefazione, alla fine si conclude senza drammi troppo eccessivi, ma anzi con la prospettiva di un futuro migliore.

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Suttree

Suttree, Cormac McCarthy, ET Einaudi, 2011, 560 p.
Suttree, Cormac McCarthy, ET Einaudi, 2011, 560 p.

Non sempre i grandi romanzi devono avere una direzione specifica, a volte raccontano solo una storia senza la pretesa di trasmettere chissà quale messaggio. Così accade in questo libro, dove le vicende si susseguono senza approdare da nessuna parte, dove manca un fulcro di interesse, una meta da conseguire, un nodo da sciogliere o un segreto da svelare. Una lettura molto corposa, ricca di descrizioni e carente di colpi di scena, dove accade di tutto anche quando sembra non accadere nulla, ma per capirlo bisogna lasciarsi catturare dal flusso lento e vischioso della vicenda senza volerci scovare a tutti i costi un nesso logico, un significato profondo. L’unico messaggio, se proprio ne dobbiamo scovare uno, è che ogni uomo ha in mano il timone del proprio destino, sia quando naviga in acque tranquille che quando affronta cascate impervie.

Per chi già conosce il talento di McCarthy questo è un romanzo veramente imperdibile, anche se in parte diverso dal resto della sua produzione. I contenuti sono sempre drammatici e universali e la storia è per molti aspetti cruda, ma siamo ben lontani dalla durezza e dalla brutalità insensata che caratterizzano “Meridiano di sangue” e “Non è un paese per vecchi”. In Suttree affiorano addirittura piccoli sprazzi di umorismo, soprattutto nella descrizione di alcuni tratti fisici o intemperanze umane, anche se ogni cosa avviene sempre all’interno di una cornice desolata che neppure l’ironia riesce a stemperare del tutto.

Il romanzo è una finestra aperta sulla vita degradata che si svolge al di là delle metropoli nell’America degli anni ’50, nelle periferie delle campagne e delle baraccopoli ai margini dei fiumi. Il protagonista principale è Cornelius Suttree, detto Buddy, che abita su una casa galleggiante a Knoxville, lungo il fiume Tennessee, sopravvivendo con i scarsi proventi della pesca. Un personaggio che per certi versi affascina e per altri irrita: non ha uno scopo nella vita, passa le giornate a bere, a ciondolare, a frequentare personaggi poco raccomandabili, limitandosi a strisciare nel lerciume dei luoghi che attraversa. Una vita che appare come una rassegnazione al pantano d’indigenza che imbratta ogni scenario. Eppure la sofferenza c’è, anche se ben camuffata nel profondo dell’animo, anche se avvolta in una nebbia di oblio e apatica indifferenza. Un dolore esistenziale che esplode nei momenti più estremi, come una lava vulcanica che tutto travolge e trascina. Ed è in questi momenti che Suttree tocca il fondo per poi riemergere, alla stregua di un’araba fenice, dalle esperienze più insensate e degradanti.

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