
In un’epoca in cui la scrittura colta scarseggia e la svalutazione della lingua italiana abbonda, e i letterati colti e discreti vengono scavalcati da scrittori mediocri, sciatti e petulanti che si fanno strada a sgomitate per apparire sui media o dietro le vetrine delle librerie, ben vengano autori come Michele Mari. Forse tra i pochi che oggigiorno riescono ancora a manipolare con estrema perizia la lingua italiana e l’impalcatura di un testo, divertendosi a ricamarci di tanto in tanto degli arcaismi o dei neologismi, senza che però questi intralcino la scioltezza della trama e la profondità del contenuto. Le sue storie infatti, per quanto scritte in modo colto e ricercato, attingono spesso spunti e motivi da quel groviglio di malesseri esistenziali che si legano al periodo della prima giovinezza e al contesto familiare, oppure alla solitudine dell’età adulta e alle ossessioni del quotidiano, rievocandoli attraverso persone, oggetti e frammenti di matrice autobiografica.
Come ad esempio nel racconto che dà titolo alla raccolta (Euridice aveva un cane), dove assistiamo ad un allarmante contrasto tra l’immobilità e la lentezza esistenziale del protagonista Michele (palese alter ego dell’autore), che passa le vacanze estive nella vecchia casa dei nonni rinchiuso in biblioteca, e la modernità chiassosa e veloce incarnata invece dai vicini di casa, sempre impegnati a far baldoria, a rinnovare mobili e oggetti, a invitare gente e moltiplicarsi. L’unico rapporto umano che in qualche modo colma questo vuoto creato dal sacro disprezzo per il vicinato, è quello che Michele stabilisce con la vecchia Flora e il suo cane Tabù, che vivendo in un casolare altrettanto fatiscente come il suo gli appaiono come custodi di antiche vestigia di una civiltà ormai estinta. Ma in realtà l’ancoramento al passato di Michele, estremizzato da una tenace conservazione di ogni oggetto, è un tentativo di fuggire dal flusso del tempo, da quel suo avanzamento inarrestabile che tutto modifica e cambia. E’ quindi anche un cercare, seppure inconscio, di sfuggire alla morte. Quando un giorno il ragazzo, ritornando d’estate in quei luoghi, viene a sapere che Flora è stata ricoverata in ospedale e poi in un ospizio, evita continuamente con una scusa e l’altra di farle visita, sperando così di bloccare il tempo, di sfuggire a ciò che appare ineluttabile… Al contrario del mitico Orfeo, Michele sceglie quindi di non voltarsi a guardarla, la sua Euridice, sperando in tal modo di non perderla per sempre, o perlomeno di custodirla intatta nella sua memoria, con accanto anche l’immagine del suo adorato cane.