Pòlinka, o dell’impossibilità di governare le emozioni

Ritorno a Čechov, di cui ogni tanto leggo o ripesco un racconto… Ve ne propongo uno che mette di nuovo a confronto l’universo maschile con quello femminile, con i loro diversi modi di sentire e interagire, un po’ come accadeva ne Uno scherzetto ma con alcune differenze. In questo caso i sentimenti di fondo traspaiono in modo più evidente sia da una parte che dall’altra, anche se camuffati con grande sforzo. Vorrebbero certamente esplodere ma vengono trattenuti sotto una maschera di finta gaiezza, quella sbandierata dal commesso, ossia dal protagonista maschile del racconto, che più alza la voce per gridare i nomi e i prezzi della merce, più alimenta l’agitazione sua e della povera ragazza piangente. Che, suo malgrado, si sente attratta da un altro giovane ma nello stesso tempo si rivela incapace di assumere una posizione netta e decisa nei confronti del suo nervosissimo interlocutore, per il quale forse prova ancora dei sentimenti, o perlomeno un mix di emozioni contrastanti…

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Portrait of Maria Lvova, Valentin Serov, 1895, fonte wikiart.org

Un racconto bellissimo, in cui risalta al massimo la capacità cechoviana di tratteggiare con una sensibilità tutta moderna – quindi godibile anche per noi lettori di oggi – la difficoltà di due cuori che non riescono assolutamente ad intendersi, destinati pertanto a un’inevitabile sofferenza.
Notate, così, en passant, la punta di perfidia del commesso, che, incapace di accusare il colpo, cerca tra un discorso e l’altro di demolire agli occhi della ragazza l’immagine dell’altro spasimante, e non abbastanza pago, cerca anche di convincerla di non essere all’altezza delle esigenze culturali dello stesso, né delle ambizioni che lo muovono. Giusto per mortificarla un po’, con l’intento evidente di dissuaderla. E notate con quanta sottile arte Čechov porta avanti due conversazioni in parallelo, quella privata e più sommessa che avviene tra i due giovani e quella pubblica e più ostentata che si manifesta nel rapporto con la clientela del negozio, tramite la quale il commesso cerca di dissimulare il più possibile, sotto una vivace rassegna di merletti, piumini e bottoni, non solo l’ansia della fanciulla ma anche il nervosismo che sente crescere in sé.
Una situazione per niente facile da rendere con efficacia in un contesto narrativo, per cui Čechov merita come minimo un doppio applauso! Ma era solo un medico condotto o era anche un fine psicologo, quest’abile scrutatore dell’animo umano?

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Prima gli idioti

Prima gli idioti, Bernard Malamud, EPUB, Minimum Fax, 243 p.

Nato a New York nel 1914, figlio di immigrati ebrei di origine russa, Bernard Malamud viene abitualmente accostato ad altri due grandi esponenti della letteratura ebraico-americana del secondo Novecento, quali Saul Bellow e Philip Roth, anche se in realtà avrebbe poco da spartire con gli illustri colleghi in fatto di stile e contenuti. Dei tre è infatti l’autore che ha ripreso in misura maggiore la tradizione del racconto centroeuropeo, subendo anche l’influsso del mito e del tono magico che caratterizza i racconti popolari. Come ha scritto Alessandro Piperno, in un articolo che ho trovato interessante, sono in particolare Babel, Kafka, Schultz, Singer e, per alcuni aspetti, il nostro Svevo i suoi cugini più prossimi. Mentre Bellow appare appunto più distante, considerando anche il fatto che per i suoi personaggi «l’America è un’opportunità straordinaria, la patria da conquistare con spavalderia, mentre per Malamud (e per i suoi personaggi) l’America è un problema, l’ennesimo luogo sulla terra ostile agli ebrei e alle brave persone».

Le storie di Malamud, che abbiano o meno degli ebrei come protagonisti, vogliono infatti rappresentare la sofferenza di ogni essere umano al di là dell’origine, della razza d’appartenenza, assumendo in tal senso un valore universale. Come dire che il travaglio esistenziale dei personaggi, la loro ricerca di senso e direzione, la loro ansia di soddisfare piccoli e grandi bisogni mai del tutto soddisfatti, sono esperienze che bene o male riguardano tutti, che ci toccano da vicino. Oltretutto presentate con un realismo che oscilla tra l’ironico e l’amaro e che ogni tanto si concede, come accennato all’inizio, qualche fuga nel surreale.
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Riparare i viventi

Riparare i viventi
Riparare i viventi, Maylis De Kerangal, Feltrinelli, 2015, 427 p.

Questo romanzo è un torrente in piena. Sono quasi alla fine, mi mancano una ventina di pagine, eppure mi sento ancora sbattuta qua e là dai flutti, incapace di trattenere le sporadiche boccate d’aria. Ѐ una corrente di emozioni per lo più toccanti, dolorose, ma anche cariche di speranza verso la vita, che ti entrano dentro come colpi progressivi nello stomaco abbattendo ogni tentativo di difesa emotiva, di distacco mentale. Fin dall’inizio ti senti turbato, scosso, eppure non puoi fare a meno di continuare la lettura. Perché è una storia che assorbe, catalizza e ingloba con (e in) tutti i sensi, quasi le stessi non solo leggendo ma anche vivendo le situazioni descritte. Succede infatti di sentirsi immersi, a più riprese, nello stato d’animo di una madre e di un padre che stanno perdendo un figlio, anzi, che l’hanno già perso a causa di un incidente (coma irreversibile), provando quindi sulla propria pelle l’impossibilità di sostenere un colpo simile, un impatto così devastante, con tutte le conseguenze che ne derivano.
Inutile, in questo caso, omettere i particolari della trama, perché quello che conta non è tanto la storia in sé stessa ma il modo in cui è stata immaginata, meditata e tessuta, vissuta dentro e poi restituita al lettore con il massimo del realismo. Spiegare quello che succede non toglie nulla alla suggestività del romanzo, che avrà comunque l’effetto, se deciderete di leggerlo, di sorprendervi e non di meno sconvolgervi.

Simon Limbres. Un diciannovenne vitale e dinamico, amante del surf e di tutte le cose che appassionano in genere i giovani d’oggi, un ragazzo alle prese con il suo primo amore e con un futuro pieno di sogni, che all’improvviso si ritrova catapultato sul confine tra la vita e la morte, in quel limbo da cui difficilmente si torna indietro. Tutto accade nel giro di pochi istanti, pochi miseri e dannati istanti di un’alba fatale, dopo una sessione di surf notturno con degli amici, forse per un colpo di sonno di chi si trova alla guida del veicolo che riconduce a casa, e per Simon che sta seduto nel mezzo, dove non c’è la cintura di sicurezza, è veramente un impatto tremendo. Ma non è tanto l’accaduto in sé che porta scompiglio durante la lettura, visto che di incidenti ne accadono purtroppo ogni giorno nel mondo, al punto che a volte ne siamo perfino assuefatti, ma è proprio il modo in cui l’autrice incanala la nostra attenzione in tutto ciò che accade dopo, immergendoci a getto continuo nelle reazioni emotive dei vari personaggi che fanno da contorno alla tragedia. Ѐ come se fosse riuscita lei per prima a calarsi anima e corpo nella storia, immedesimandosi alla perfezione nel dolore attonito e quasi muto della madre, nell’impotenza rabbiosa del padre, nei loro dubbi di fronte all’eventualità di donare gli organi del figlio appena deceduto, e anche nell’imbarazzo dei medici, degli specialisti, degli infermieri, che spesso faticano a trovare l’approccio giusto con i parenti della vittima, sempre attenti a barcamenarsi tra empatia e distacco, tra schiettezza e reticente cautela.

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Sola a presidiare la fortezza

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Lettere, Flannery O’Connor, minimum fax, 2012, 270 p

«In questo periodo me la cavo a meraviglia a parte uno zoppicamento che mi dicono dovuto ai reumatismi. La gente di colore la chiama “la disgrazia”. Sta di fatto che cammino come se avessi un piede sul marciapiede e l’altro no ma non è un grande fastidio e mi risparmia una caterva di cose che non ho voglia di fare». (14 novembre 1954)

Così si dipingeva Flannery O’Connor in una lettera inviata a Caroline Gordon, che spesso leggeva in anteprima i suoi racconti, anche se in realtà di motivi per fare dell’autoironia ne aveva ben pochi, visto che da circa due anni le era stato diagnosticato il lupus eritematoso sistemico, la stessa malattia che aveva stroncato suo padre quand’era ancora una ragazzina perché all’epoca incurabile. Essendo il “lupo rosso” un male che distrugge il sistema immunitario, Flannery fu costretta fin dall’inizio ad assumere forti dosi di cortisone per tenerlo a bada, e questo le causò un progressivo logoramento dell’impalcatura ossea con derivanti problemi di deambulazione. Eppure, nonostante l’obbligo delle stampelle e la consapevolezza di avere una vita breve davanti a sé, cercò fin da subito di reagire, di non arrendersi, dedicando ogni forza residua alla sua più grande passione: la scrittura.
«Le energie per scrivere non mi mancano», scriveva ad una coppia di amici qualche mese prima, già imbottita di cortisone e con la faccia gonfia, «e siccome se c’è una cosa che devo fare è appunto quella, riesco, sia pure a denti stretti, a prenderla come una benedizione. Quando una cosa la devi dosare, finisce che le presti maggiore attenzione, almeno così mi dico».

Flannery aveva già pubblicato da due anni il suo primo romanzo, “La saggezza del sangue”, e nello stesso arco di tempo era entrata in contatto con molte persone dell’ambiente letterario. Con alcune di queste riuscì ad avviare un interessante scambio epistolare, che in sostanza è quello raccolto nelle pagine del volume che sto presentando. La cosa interessante del carteggio è che ci permette di conoscere non solo aneddoti riferiti al contesto in cui viveva e alla gente che incontrava, ma di farci anche un’idea più completa del suo modo d’intendere la scrittura, e questo torna utile non solo agli scrittori o aspiranti tali ma anche ai lettori che hanno letto e apprezzato i suoi racconti e/o romanzi, dal momento che molte lettere contengono chiarimenti sugli stessi. Anzi, a chi volesse avvicinarsi per la prima volta all’opera della scrittrice consiglierei di tenere a portata di mano proprio questo volumetto, che in fondo risulta molto piacevole anche come lettura a sé stante. Dalla corrispondenza privata vengono infatti fuori aspetti del carattere che sono davvero interessanti, incluso un umorismo tagliente che non risparmiava niente e nessuno e che le permetteva di ironizzare a fondo anche sulla sua persona.
Determinata, caparbia, esigente prima di tutto con sé stessa e molto schietta nei giudizi con gli altri, Flannery era in realtà una donna anche simpatica e portata per le amicizie. Dotata di un’acutezza osservativa che andava oltre ogni dato apparente, riusciva a far decantare dentro di sé qualsiasi input le giungesse dall’esterno per poi restituirlo attraverso una scrittura che non afferma e non sputa sentenze, che aborra i messaggi moralistici o edificanti (a dispetto di una salda credenza in tutti i dogmi cristiani), ma che si limita invece a presentare, “a raffigurare”. Anche con crudezza a volte, anche con brutalità, perché se scrivi di persone volgari devi pur dare la prova della loro volgarità, devi dar corpo e spessore al loro carattere, alle loro intenzioni. Parafrasando ciò che aveva scritto l’amatissimo Conrad, l’autrice era infatti dell’idea che la parola scritta dovesse far udire, far sentire e, prima di tutto, far vedere. Perché se si riesce a far questo, il lettore troverà nel racconto incoraggiamento, consolazione, paura e incanto, e tutto quel che chiede, e forse anche quel barlume di verità che ha scordato di chiedere. (cfr. “Nel territorio del diavolo”, p.51)

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Pedro Salinas, non solo amore…

E improvvisa, inattesa,
fortuita, l’allegria.
Da sola, perché volle,
è venuta. Così verticale,
così grazia insperata,
così dono a sorpresa,
che non posso credere
che sia per me.
Mi guardo intorno,
cerco. Di chi sarà?
Sarà di quell’isola
sfuggita dall’atlante,
che mi è passata accanto
vestita da ragazza,
con spume al collo,
abito verde e un grande
spruzzo di avventure?
Non sarà forse caduta
a un tre, a un nove, a un cinque
di questo agosto che inizia?
Oppure è quella che ho visto tremare
di là dalla speranza,
nel fondo di una voce
che mi diceva: «No»?

Ma non importa, ormai.
Sta con me, mi trascina.
Mi sradica dal dubbio.
Sorride, possibile;
prende forma di baci,
di braccia, verso me;
finge d’essere mia.
Andrò, andrò con lei
ad amarci, a vivere
tremando di futuro,
a sentirla veloce,
secondi, secoli, eternità,
niente. E l’amerò
tanto, che quando verrà
qualcuno
– e non lo si vedrà,
non si potranno udire i suoi
passi – a richiederla
(è il suo padrone, era sua),
quando la condurranno,
docile, al suo destino,
lei si volterà indietro
a guardarmi. E vedrò
che ora è mia, finalmente.
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Notturni, Kazuo Ishiguro

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Notturni, Kazuo Ishiguro, Einaudi, 2009, pp. 192

E’ il mio primo incontro con lo scrittore anglo-giapponese. Mi è piaciuto? Non posso dirlo con estrema certezza, anche perché non basta leggere qualche racconto (nella fattispecie soltanto cinque) per arrivare subito ad una conclusione. Posso comunque affermare di averlo trovato interessante, in particolare per due aspetti. Innanzitutto per la scrittura nitida e scorrevole, capace di evocare suggestioni e di fare rimandi senza per questo apparire dispersiva o noiosa. Poi per la scelta originale di utilizzare la musica come filo conduttore delle storie; musica rappresentata di volta in volta dagli stessi personaggi, che rivestono per l’occasione i panni di cantanti, saxofonisti, violoncellisti e via dicendo, oppure citata attraverso i brani di famosi artisti del passato.
Nel primo racconto, giusto per rendere l’idea, l’io narrante è un chitarrista che suona nelle orchestrine di piazza San Marco, e la musica fin da subito evocata è quella di Diango Reinhardt e Joe Pass. E dopo qualche pagina, quando il giovane musicista accetta di affiancare un cantante americano nel corso di una serenata, sono le canzoni della vecchia Broadway, quelle cantante ai tempi d’oro da Chet Baker e Frank Sinatra, che si levano nell’aria tra i canali veneziani.
La scelta della musica come tematica di fondo nasce da un’antica passione di Ishiguro, che infatti fin da ragazzo si cimentava con la chitarra e il pianoforte sognando di diventare un cantautore, alla maniera di Bob Dylan o Leonard Cohen. Forse è una fortuna (per lui, ma anche per i numerosi fan) che abbia dirottato sulla narrativa, visto il successo riscosso negli ultimi anni. La musica gli è comunque rimasta così radicata nel DNA da costituire ancora oggi fonte d’ispirazione. Come ha spiegato lui stesso in un’intervista rilasciata a Repubblica, l’idea per queste short-stories cominciò a prendere forma dopo aver composto dei brani per musica jazz, che gli erano stati commissionati dalla cantante americana Stacey Kent: «… lo stile è lo stesso, come confluito da un territorio all’ altro: leggerezza, parsimonia di parole, significato che si cela tra le righe, bando all’ autobiografia e alla prosa ricercata. Nelle canzoni si lavora in sottrazione, delegando alla musica gli aspetti emozionali. Così nel flusso dei racconti, dove il significato respira tra le righe».

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Dedicate ai figli

Bella e per molti aspetti originale, ricca d’inventiva nel modo di esprimere pensieri ed emozioni sul filo di una tenera ironia, questa poesia fu scritta da Sylvia Plath durante la gravidanza, dedicata alla piccola creatura che portava in grembo. Compilata tra gennaio e febbraio del 1960 si rivelò di buon auspicio per la nascita di Frieda Rebecca, che decise infatti di fare la sua comparsa al mondo nella giornata del primo aprile, onorando in tal modo il pronostico dei versi.

Tu sei

Simile a un clown, felice soprattutto a testa in giù,
piedi alle stelle, un cranio lunare,
le branchie come un pesce. Un sensato
pollice verso allo stile del dodo.
Avviluppato su di te come un rocchetto,
esploratore del tuo buio come i gufi.
Muto come una rapa dal quattro
di luglio al Primo Aprile,
oh pallina che cresci, mia pagnottella.

Vago come la nebbia e atteso come la posta.
Più lontano dell’Australia.
Atlante curvo, nostro gamberetto viaggiatore.
Rannicchiato come un bocciolo e a tuo agio
come uno spratto nel vasetto.
Nassa di anguille tutta fremiti.
Salterino come un fagiolo messicano.
Giusto come un’addizione ben fatta.
Foglio pulito, con su la tua faccia.

All’incirca un anno dopo, nel febbraio 1961, Sylvia scrisse un’altra poesia per sua figlia, incantevole per le metafore adottate. La terza strofa, in particolare, è molto bella e suggestiva, così come il paragone tra il respiro della bambina e il lieve tremolio della falena in quella successiva. Di fronte a versi simili rimango sempre sbigottita, quasi incapace di trovare le parole adatte per formulare un commento.

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Per chi suona la campana

Per chi suona la campana, Ernest Hemingway, Mondadori, 1996, 501 p.
Per chi suona la campana, Ernest Hemingway, Mondadori, 1996, 501 p.

Andavano tra l’erica del prato montano. Robert Jordan sentiva l’erica solleticargli le gambe, sentiva sulla coscia il peso della pistola nella fondina, sentiva il sole sulla testa, sentiva fredda sulla schiena la brezza delle vette nevose e nella mano sentiva la mano della ragazza, forte e ferma, le dita intrecciate alle sue. Da quella mano, da quella palma che riposava sulla propria, dalle dita insieme intrecciate e dai polsi incrociati, dalla mano di Maria, dalle sue dita, dal suo polso, gli veniva un che di fresco, come il primo soffio lieve del mattino che passando sul mare increspa appena la superficie vitrea e calma dell’acqua, lieve come una piuma che ti sfiora le labbra o come una foglia che si stacca e cade quando non soffia un alito; così lieve che egli lo sentiva solo col contatto delle loro dita, ma che si faceva così forte e veemente e urgente, così doloroso e impetuoso quando le dita si serravano e le palme e i polsi aderivano, che era come se una corrente gli percorresse il braccio riempiendogli tutto il corpo di uno svuotante, doloroso desiderio. Col sole che le brillava sui capelli color grano e sul bel viso dolce e liscio d’oro bruno e sulla curva del collo, egli le rovesciò indietro la testa e stringendola a sé la baciò. La sentì tremare mentre la baciava: se la premette tutta, forte, contro di sé e sentì attraverso le due camice cachi i seni di lei sul suo petto, sentì i piccoli seni duri, e allora le sbottonò la camicia e la baciò, e lei teneva la testa arrovesciata, stretta nelle sue braccia. (….) Ci fu poi per Maria l’odore dell’erica schiacciata e la ruvidezza degli steli piegati sotto la sua testa e il sole brillò sugli occhi chiusi. Per tutta la sua vita egli non potrà dimenticare la curva di quel collo, e la testa rovesciata tra le radici dell’erica, e le labbra che si muovono appena, e le ciglia palpitanti sugli occhi chiusi per scacciare il sole, e ogni cosa; per Maria tutto era rosso e arancione e d’oro per il sole sugli occhi chiusi, e tutto aveva il colore; tutto, il riempirsi, il possedere, il dare, tutto aveva quel colore stesso, in una cecità che era di quel colore. Per lui era una via oscura che non portava in nessun posto, e ancora in nessun posto, di nuovo in nessun posto, di nuovo ancora in nessun posto e sempre eternamente in nessun posto, coi gomiti duramente affondati nella terra, nel buio, senza fine verso nessun posto, sempre e continuamente sospeso verso l’ignoto nessun posto, ma per rinascere di nuovo e sempre in nessun posto, insopportabilmente ora, su, su, su e in nessun posto, e poi bruscamente, roventemente, tutto il “nessun posto” è svanito e il tempo assolutamente fermo e loro due lì, il tempo essendosi fermato: ed egli sentì la terra mancare sotto di sé e sprofondarsi.

Un crescendo di passione descritto in un simile modo, con quelle parole ripetute che rendono l’attimo ancora più intenso fino al culmine dell’estasi, non mi era mai capitato di leggerlo. Affermare che questo brano è meraviglioso, sarebbe dir poco. Ma questo non è un romanzo d’amore. Sì, c’è anche quello, che proprio in virtù del contesto difficile in cui si sviluppa acquista particolare risalto, ma non è un romanzo d’amore. È una vicenda di guerra, con aspetti anche crudi e brutali, che si rifà a un pezzo di Storia del secolo scorso, miscelando realtà e fantasia con consumata esperienza. Un romanzo di cinquecento pagine per descrivere una vicenda che si snoda in tre giorni. Ma in questo breve lasso di tempo l’autore è riuscito a condensare un intero conflitto, con tutto il dramma umano che ne consegue.
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