Esiste quella da fieno, da acari, da glutine, da nichel, da coda all’ufficio postale, da cognata so-tutto-io, da sveglia che suona alle 7:00 del mattino, da vicino di casa che tira lo sciacquone a mezzanotte, da venditore porta a porta che non-te-ne-liberi-più. Ed esiste anche quella da televisione, che a quanto pare affliggeva il buon Manganelli. Che sollievo scoprire di non essere l’unica, mi sento un po’ rincuorata. Personalmente la guardo poco la televisione, molto poco. Qualche film, se proprio merita, qualche video musicale o un buon documentario, ma per tutto il resto le riservo un’ostentata indifferenza. Se c’è una cosa che poi non sopporto è la valanga di spot pubblicitari che ogni anno si ingrossa sempre di più, con una sfrontatezza che ormai non conosce limiti. Inoltre molti réclame, per le frasi e i quadretti scemi che ogni volta propongono, appaiono come un insulto ripetuto alla nostra intelligenza. Senza dubbio chi li concepisce tende a considerarci come un gregge di pecore tosate, appaiate, docili e prevedibili, accomunate da desideri simili e pronte a bersi qualsiasi sciocchezza. Eh no, cari strateghi della comunicazione di massa, esiste anche chi è refrattario alle vostre seduzioni. E siamo sempre di più, ve lo assicuro. Piuttosto che sorbirmi la vostra pubblicità, preferisco di gran lunga passare le serate a leggere un libro, a scrivere un articolo, a navigare tra i flutti del mare-web alla ricerca di qualche isolotto da perlustrare, oppure a fare altre cose piacevoli di cui è meglio non rivelare oltre i dettagli.
Continua →
Tag: letteratura italiana
«Che cosa ne pensa lei del culo?»
Naturalmente, doveva succedere; è secondo le sacre e misteriose leggi della natura, e sarebbe vano, forse empio, far contrasto. Un uomo pensoso di sé e della galassia, uno studioso delle comete dell’anima, lettore di classici, amante della sintassi, cultore di aggettivi; tradotto, anche, in lingue bizzarramente locali, sussurrate da pochi e nevrotici indigeni; un uomo così fatto sa che la sperduta umanità si rivolgerà a lui come a un saggio, diciamo una roba zen, un po’ sul guru.
Mi si consenta di uscire dal generico, e di inalberare i vessilli del narcisismo. Mi hanno chiesto, a bruciapelo, come usava nell’Iowa, cosa pensavo della morte, che idea avevo dell’aldilà, che cosa pensavo di una certa nave fenicia, e naturalmente della droga, del Foscolo, dell’amore, dell’eros, dell’erotismo, della pornografia, del sesso, dell’eterosessualità, della fotografia, del cinema muto, degli handicappati, degli omosessuali, dell’inferno, della scuola, dei flipper, di Dio, del romanzo; ma un oracolo non ha raggiunto il suo culmine, non è se stesso, se non gli fanno la domanda estrema: «Che cosa ne pensa lei del culo?».
Di questa domanda debbo osservare in primo luogo che è formulata con il “lei”, e dunque deferente, lievemente angosciata, e che include la parola “culo”. A domande così rispondeva in altri tempi il decaduto oracolo di Delfi, o la quercia di Dodona. E appunto così avrebbero parlato gli antichi: non avrebbero detto “parti deretane”, o “natiche”, o “sedere”, o “servizi”, o “didietro”, tutte parole svergognatamente senza vergogna, oneste, semplici, leali. No: è quella parola breve e sonora, quel “culo”, che vuole una risposta. Mi dicono che il culo oggi sia in crescita, che la sua dignità venga riconosciuta, che sia di moda. Quando diventerà di moda l’orecchio sinistro? O il mastoide? Le lacrime romantiche erano solo un caso – antico – di moda fisiologica?
Continua →
Marco e Mattio

Questa è una storia che per molti aspetti colpisce e impressiona, difficile dimenticarsela. Una storia che parla di miseria, di fame, di pazzia, di follia redentrice, il tutto sullo sfondo di grossi cambiamenti epocali. Anche in questo caso, com’era accaduto nel romanzo La chimera, la trama si modella sulla base di un’accurata ricerca documentaria che in alcune parti si avvale dell’invenzione. I riflettori sono puntati non sui grandi personaggi storici, che pur essendo presenti rimangono sullo sfondo del romanzo, ma sulla gente umile e povera, che rappresenta da sempre la categoria più vessata del tessuto sociale. Vassalli tendeva infatti a prediligere le vicende dei singoli che si incrociano con la Grande Storia, le storie di uomini e donne spesso sconosciuti o quasi del tutto ignoti, che spesso e volentieri ripescava dal buio dell’oblio con tutto il loro carico di esperienza vissuta e patita. Era quindi un narratore di storie più che un romanziere nel senso classico del termine, ma in fondo raccontare – come ha scritto Paolo Mauri nel retro copertina – è pur sempre salvare, raccontare è anche un’opera di perplessa pietas verso vite altrimenti estinte per sempre.
Il periodo storico tracciato nel romanzo è quello a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento, che vide la fine della Repubblica di San Marco (le cui classi nobiliari opprimevano da decenni le campagne venete con pesanti dazi) per opera delle truppe napoleoniche francesi, le quali al posto della libertà promessa si dedicarono a soprusi e saccheggi, per poi cedere da lì a poco il Veneto all’Impero Austriaco, che tolto un breve periodo ci spadroneggiò fino all’unità d’Italia, imponendo nuove e pesanti tasse alla popolazione locale. Erano quindi anni turbolenti per l’Italia, segnati dall’alternanza di continui domini stranieri e da tentativi di sommosse contadine soffocate subito nel sangue. Famosa ad esempio quella capeggiata dal brigante Desiderio Manfroi, detto l’Userta, che cercò di ribellarsi ai soprusi dell’aristocrazia bellunese, di volta in volta compromessa con il dominatore straniero di turno, forse più con l’intenzione di trafugare per sé dei beni preziosi che non per vero amor di patria, come suppone anche Vassalli nel libro. Il quadro che il romanzo dipinge di questo periodo storico è comunque sconsolante, perché alla fine chi ci riemetteva era sempre la classe rurale, che restava povera, cenciosa e affamata, mentre i ceti aristocratici trovavano sempre il modo, grazie ad un’alleanza o all’altra, di preservare vecchi e nuovi privilegi.
Se questo è un uomo

«Ogni uomo civile è tenuto a sapere che Auschwitz è esistito, e che cosa vi è stato perpetrato: se comprendere è impossibile, conoscere è necessario».
Questa volta scriverò un po’ di pancia, evitando di soffermarmi su dettagli storici, nomi, date… Tutti ormai sappiamo come si sono svolti i fatti nel corso del secondo conflitto mondiale, di come ha manovrato e agito la macchina del nazismo in ogni settore, e comunque sono notizie reperibili ovunque. Quella che invece mi preme trasmettere è l’emozione assorbita durante la lettura di questa drammatica testimonianza, e le relative riflessioni che ne sono derivate. Non parlerò quindi neppure dei motivi per cui questo libro è considerato oggi un classico, né degli episodi e delle varie citazioni che lo ricollegano alla Commedia di Dante, anche se non potrò fare a meno di utilizzare con una certa insistenza la metafora lager-inferno. Le indagini poetiche, letterarie e formali le lascio ad altri recensori, quelli che se la cavano meglio di me in termini di accuratezza. Farò solo una breve introduzione, poi tutto il resto lo lascerò scorrere come viene. Confido quindi nell’indulgenza di chi si appresta a leggermi, e mi scuso fin da adesso per la carenza di una certa schematicità.
Iniziamo col dire che Primo Levi fu catturato nel dicembre del ’43 e deportato, a distanza di circa un mese, nel campo di lavoro di Monowitz, in Polonia, che faceva parte del complesso concentrazionario di Auschwitz. Nei pressi del lager c’era la Buna-Werke, di proprietà della I.G. Farben, un impianto chimico per la produzione di gomma sintetica che utilizzava i prigionieri come manodopera, o meglio come schiavi-lavoro, rimpiazzandoli con altri detenuti ogni volta che morivano stremati dagli stenti. Levi ebbe la fortuna, se così si può chiamare, di essere a un certo punto selezionato per lavorare nel laboratorio della Buna, grazie alla sua laurea in chimica, e questo gli permise di evitare ulteriori fatiche nell’ultimo periodo di prigionia. Nel laboratorio poteva infatti svolgere delle mansioni meno disagevoli e riuscire a contrabbandare del materiale con cui effettuare transizioni per ottenere cibo. La stessa fortuna lo sostenne anche nel gennaio del 1945, quando ormai i russi stavano avanzando costringendo i tedeschi alla ritirata, visto che si ammalò di scarlattina e fu quindi abbandonato dagli aguzzini nell’infermeria del campo, insieme ad altri malati, evitando in questo modo quella lunga marcia di evacuazione da Auschwitz (poi definita Marcia della Morte) che fu letale per migliaia di altri detenuti, che crollavano a terra fucilati o congelati. Il viaggio di ritorno di Levi in Italia, lungo e travagliato, attraverso mezza Europa devastata, ci è stato poi descritto nel romanzo La tregua, altrettanto interessante da leggere per capire le ulteriori evoluzioni di questa sua difficile esperienza.
Racconto d’autunno

Un partigiano braccato nei boschi, una dimora vetusta e isolata, un vecchio scostante e misterioso, il ritratto di una donna affascinante, un sotterraneo che nasconde dei segreti inquietanti…
Questi gli ingredienti principali del romanzo, dove l’iniziale realismo della guerra partigiana lascia progressivamente il posto ad una tragica vicenda d’amore e morte, che per molti aspetti si ricollega all’atmosfera cupa, fantastica e malinconicamente romantica di tanta narrativa gotica inglese.
In un periodo che l’autore non precisa, ma che corrisponde alla seconda guerra mondiale, un partigiano in fuga dall’esercito invasore si trova costretto, come tanti, a vagabondare a lungo in zone selvagge che sono lontane dalla sua sede abituale. Ad un certo punto, seguendo un sentiero nel bosco, giunge stanco e affamato presso una grande casa dall’aspetto signorile e decadente, che pare abbandonata ma che invece è abitata da un vecchio malmostoso. Questi si dimostra fin da subito riluttante ad offrirgli ospitalità, ma alla fine cede di controvoglia, sperando che l’importuno si tolga dai piedi al più presto. La scontrosità del vecchio viene enfatizzata ancora di più dalla presenza di due cani feroci e minacciosi, che sembrano ubbidirgli ciecamente affiancandolo in ogni spostamento. Nonostante questo, col trascorrere dei giorni il protagonista – che nel libro sta raccontando l’intera vicenda in prima persona – decide di prolungare il suo soggiorno nel maniero, non solo per tutelarsi dai rischi esterni ma anche perché attratto in modo irresistibile da un’immagine femminile intravista in un quadro…
Era un ritratto a mezzo busto di giovane donna, che fissava il riguardante; un olio alquanto annerito, ma non tanto che non si distinguessero i particolari. La donna era vestita secondo la moda degli ultimi anni del secolo passato o dei primi di questo, con tutto il collo chiuso in un’alta benda di pizzo; di pizzo era anche la veste, dalle maniche sboffate; sul petto ella recava un grande e complicato pendentif o breloque (come allora si diceva) di topazi bruciati, sorretto da nastri di seta marezzata; sulle spalle un amoerro, ricadente in larghe e convolte pieghe. La massa dei capelli bruni era pettinata in conseguenza, cioè in ampio cercine o cannuolo attorno alla fronte, in mezzo al quale spiccava un minuscolo diadema a forma di corona. Le di lei fattezze, delicate e chiare, recavano l’impronta inequivocabile della nobiltà di sangue e di carattere, e quel minimo di sdegnosità che l’accompagna sovente. Le guance appena arrotondate attorno alla bocca attribuivano, inoltre, a quel volto qualcosa di vagamente infantile. (pag.47)
Ma sono soprattutto gli occhi del ritratto, scuri e conturbanti, che sembrano quasi vivi, a colpire il visitatore. La sua curiosità viene però subito ostacolata dall’atteggiamento rigido del vecchio, che si affretta a stabilire una serie di regole e divieti, come ad esempio quello di non accedere a certe zone riservate dell’ampia casa. Ma come è facile supporre, il protagonista-narratore violerà ben presto i suddetti limiti, aspettando ogni volta il momento propizio per addentrarsi nei meandri del vecchio caseggiato alla ricerca di una fantomatica presenza femminile, di cui a tratti gli sembra di percepire i passi, il respiro, il profumo, e che nella sua mente suggestionata ricollega al dipinto recentemente osservato. E in questi viaggi esplorativi che si snodano tra corridoi, stanze, locali sotterranei e inaspettati passaggi segreti, all’interno di un maniero labirintico che appare senza fine e che diventa ad ogni angolo sempre più inquietante, alla ricerca di non si sa bene cosa e col rischio di venire scoperti da un momento all’altro, anche chi legge la storia, al pari dello stesso narratore, si ritrova di frequente con il fiato in sospeso, avvinghiato alle pagine e incapace di staccarsene, tanto è appunto il clima di incertezza e continua aspettativa che trasuda dal racconto.
La cognizione del dolore

Forse è necessaria una premessa: affrontare Gadda è faticoso, richiede impegno e una buona dose di concentrazione, quindi non è adatto per chi cerca delle letture più disimpegnate o scorrevoli. La sua è una scrittura complessa e articolata, caratterizzata da frequenti similitudini e metonimie, da inserzioni dialettali e straniere, da neologismi e vocaboli di derivazione tecnico-scientifica, da arcaismi colti, raffinati e pedanteschi. Una sorta di pastiche linguistico che si “autoinventa” di continuo con le trovate più impensabili, per di più complicato da spezzature e digressioni, per cui è facile perdere il filo del discorso se non si mantiene un’attenzione costante. Per il significato di certi termini è necessario consultare le note a piè di pagina, se non un dizionario, ma è uno sforzo che ripaga con il piacere di comprendere meglio certi passaggi.
Non per niente la prosa gaddiana è stata definita più volte espressionistica e plurilinguistica, proprio per la violenza con cui opera sul linguaggio alterandone gli equilibri normali, combinando assieme differenti livelli stilistici e linguistici. Però non bisogna fraintendere, perché quello di Gadda non è autocompiacimento, non è puro esercizio di stile. Come ha spiegato lui stesso nella presentazione del libro, dopo aver preso atto del fatto che il mondo è già barocco in ogni suo aspetto, lui non ha fatto altro che riprodurre tale baroccaggine nei suoi testi. La tendenza a rendere certi passaggi ridondanti nasce quindi da una necessità espressiva che poggia su dei motivi ben precisi.
Nella visione di Gadda l’uomo appare infatti come un nodo, un groviglio di rapporti fisici e metafisici, per cui narrare significherà, di conseguenza, inseguire e dipanare tutti i fili di quel groviglio, con la certezza però di non arrivarne mai a capo. Quindi, per quanto si cerchi di dipanare meticolosamente la matassa con l’ausilio di invenzioni talvolta comiche e parodiche e altre volte patetiche e impietose, sviluppando in modo “abnorme” (barocco) ogni segmento della narrazione, il problema rimane sempre lì, con il suo nucleo enigmatico non risolto, lontano da facili risoluzioni e imprevedibile negli esiti futuri. É come se Gadda volesse farci intendere che il disordine del mondo non si può eliminare; lui per primo ci ha provato, partito con la volontà di trovarci un’armonia, un punto di equilibrio, ma avendone riscontrato la continua insensatezza non poteva che convincersi dell’esistenza di una disarmonia congenita e prestabilita, che niente e nessuno può riuscire ad eliminare. La Letteratura, quindi, se vuole rappresentare fedelmente la realtà in cui viviamo, deve apparire anch’essa come un groviglio inestricabile, come un’espressione insoluta della complessità del mondo. E cosa c’è di meglio di uno stile letterario barocco, enfatico e ridondante per esprimere al meglio gli eccessi del nostro mondo? Stesso discorso per il plurilinguismo, che miscidando assieme gerghi, termini aulici, settoriali e stranieri finisce col rappresentare in modo efficace le molteplici contraddizioni dell’esistenza umana.
Con tutto questo Gadda si proponeva di realizzare una prosa che fosse una resa della vita nella sua più ampia accezione. Ma il pastiche linguistico aveva anche lo scopo di offrire una rappresentazione straniata e umoristica della realtà, che nella visione dell’autore è sempre soggetta ad una serie di cause e concause che determinano lo snodarsi di eventi imprevedibili entro cui si muove un’umanità eterogenea accomunata dall’esperienza del dolore.
Penso che per comprendere bene Gadda, la cui forma stilistica è stata definita più volte “avanguardistica”, a dispetto della riluttanza che l’autore nutriva per le etichettature, sia anche utile sapere che la sua vena narrativa subì l’influenza di letture filosofiche e psicoanalitiche (in particolare Spinoza, Leibniz, Freud), oltre che tecnico-scientifiche (era laureato in ingegneria elettrotecnica e lavorava nel settore), e che probabilmente dalle prime era scaturito il desiderio di penetrare la realtà sondandola dalla superficie fino al nucleo, nel tentativo di comprenderla e classificarla, mentre dalle seconde era derivata l’attenzione ossessiva per il dettaglio, per i particolari più minuti, oltre che la mania per l’ordine e la precisione. Da una parte c’è quindi una spinta alla costruzione, ossia a definire un insieme che raccolga le facce più disparate della realtà, e all’opposto c’è un perdersi nel frammento, ossia in descrizioni troppo pedanti e minuziose degli oggetti e contesti esaminati. La conseguente frustrazione è quindi inevitabile, perché la volontà di prendere in considerazione ogni più piccola cosa conduce inevitabilmente alla dispersione, e quindi al fallimento del desiderio di raggiungere una visione unitaria delle cose.
Tale tensione, che non trova mai un bilanciamento, si avverte anche nel modo stesso in cui Gadda ha svolto i suoi lavori letterari, spesso cresciuti attorno a progetti che non sono stati portati a compimento, poi raccolti in volumi come brani di diversa origine e destinazione. Anche i suoi capolavori, La cognizione e il Pasticciaccio, si trasformano più volte nel percorso della loro gestazione senza mai arrivare ad un esito definitivo. Il non-finito caratterizza tutta l’opera gaddiana, perché, come spiega lo storico della letteratura Giulio Ferroni, “l’immagine del tutto si dà solo attraverso l’amplificazione e la moltiplicazione di particolari frantumati, che non possono veramente saldarsi tra loro”.
Feria d’agosto

Probabilmente sarà capitato anche a voi, in qualche momento sperduto della vostra infanzia, di intrecciare un dialogo con un campo di granoturco (o con una roccia, un ruscello, una vecchia quercia), un dialogo formato non solo da percezioni visive ma anche da suggestioni profonde seppure non ben definibili, al punto che, una volta divenuti adulti, soffermandovi di nuovo e per caso ai margini di quel posto, ossia di fronte a quel particolare elemento che era riuscito in qualche modo a turbarvi, l’antica memoria all’improvviso riaffiora e vi inonda come una rivelazione, con una presa emotiva così travolgente che vi sembra quasi di venire catapultati, per qualche brevissimo istante, in quel lontano e rimosso frangente.
Per quanto mi riguarda non sono nuova a questi stati d’animo, che spesso possono infatti sorprendermi attraverso un profumo, un accostamento cromatico, un particolare bagliore, o ancora per i dettagli di un oggetto, per le sfumature di un paesaggio. É qualcosa che giace sepolto nell’inconscio e che all’improvviso si ridesta, difficile da chiarire in termini razionali, e se nel mio caso sarà difficilmente un campo di grano a ravvivarlo nella coscienza, potranno invece esserlo una casa diroccata al limitare di un bosco, le fronde di un albero sbattute dal vento, il candore di una guglia innevata che si staglia nel cielo… Elementi che bene o male si legano alle mie personali esperienze. Perché sembra che ognuno di noi sia predisposto a ricevere degli stimoli in base al tipo di emozioni che ha vissuto e introiettato nel proprio passato e che, in modo più radicale di tante altre, sono riuscite ad affondare radici occulte e silenziose negli strati più profondi della memoria.
Per Pavese, che con la sua prosa bella e poetica sa rendere molto meglio di me il concetto, queste sono immagini già impresse dentro di noi, colte e introiettate in momenti esistenziali particolarmente sentiti, in particolare durante la crescita; sono lampi percettivi che “si rapprendono e concentrano nel tempo in figure naturali” e che poi si ripresentano in modo impensato sulla nostra strada nel momento giusto, quando meno ce lo aspettiamo, investendoci con tutta la loro forza scombussolante e rivelatrice.
Quel che mi dice il campo di granturco nei brevi istanti che oso contemplarlo, è ciò che dice chi si è fatto aspettare e senza di lui non si poteva far nulla. “Eccomi”, dice semplicemente chi si è fatto aspettare, ma nessuno gli toglie lo sguardo astioso che gli viene gettato come a un padrone.
Invece, al cielo tra gli steli bassi do un’occhiata furtiva, come chi guarda di là dall’oggetto quasi in attesa che questo si sveli da sé, ben sapendo che nulla ci si può ripromettere che esso già non contenga, e che un gesto troppo brusco potrebbe farne traboccare malamente ogni cosa. Nulla mi deve quel campo, perché io possa far altro che tacere e lasciarlo entrare in me stesso. E il campo, e gli steli secchi, a poco a poco mi fruscìano e mi si fermano nel cuore. Tra noi non occorrono parole. Le parole sono state fatte molti anni fa. Continua →
Il mare non bagna Napoli

Da diverso tempo volevo parlare di questo libro, ma attendevo l’ispirazione, il momento giusto. Ne è risultato un articolo forse un po’ troppo lungo ed elaborato, ma del resto gli argomenti trattati sono così importanti e complessi che non mi è possibile operare ulteriori sottrazioni, oltre quelle già fatte per sfrondare il testo da qualsiasi nota superflua.
Il mare non bagna Napoli è un’opera costituita da diverse prose, alcune a metà tra la narrativa e l’inchiesta giornalistica, che hanno come tema di fondo la condizione napoletana del dopoguerra, abbandonata a un destino di miseria e rassegnata disperazione. Una città che agli occhi dell’Ortese, così come ce la presenta in queste pagine, appare senza grazia, decaduta e mostruosa, ben lontana dall’immagine classica e stereotipata, così ricca di colori vivaci e ridenti, che siamo abituati a vedere nelle cartoline.
Fin dalla sua uscita nel 1953, nella collana ‘Gettoni’ della Einaudi, diretta da Elio Vittorini, il libro fece scalpore e sollevò molte polemiche, in particolare per il capitolo finale Il silenzio della ragione, in cui l’Ortese, con ricordi che si alternavano tra la delusione affettuosa e l’amarezza avvelenata, offriva un ritratto abbastanza impietoso degli intellettuali partenopei che all’inizio degli anni ’50 si erano affaccendati attorno alla rivista “Sud”, alla quale lei stessa aveva più volte collaborato. La critica che l’Ortese avanzava agli ex amici e colleghi era quella di aver perso la volontà di combattere per i loro ideali, di essersi imborghesiti e allineati a quella Napoli che poco tempo prima avevano invece crocifisso con i loro scritti. Ne esce quindi il ritratto di un’intellighenzia napoletana effimera e inconcludente, apparentemente mossa dalla passione ideologica e sociale ma in realtà incapace di essere veramente incisiva. Questo le valse una serie di forti antipatie e risentimenti, che si aggiungevano all’accusa di aver offerto al mondo un’immagine troppo brutale e grottesca di Napoli e della sua gente.
Ma in realtà la visione dell’Ortese, come spiegò lei stessa nelle pagine aggiunte alle nuove edizioni del libro nel corso degli anni ’90, scaturiva da quel tipico stato di spaesamento che segue di solito le grandi delusioni e che spinge all’impossibilità di accettare una realtà che si avverte sgradita, sofferta, insostenibile. Uno spaesamento accentuato ancora di più dai segni lasciati dalla guerra, che avevano fatto assurgere la città di Napoli ad emblema di una lacera condizione universale.
Da qui il suo bisogno di accanirsi sulla città e sulle persone intellettualmente note che in qualche modo avrebbero dovuto rappresentarla, o meglio attivarsi per cercare di migliorarla, dove i toni spesso esasperati e dilatati oltre il necessario, che viaggiavano sull’onda di una visione cupa e disfattistica delle cose, davano sfogo a un dolore che non era più in grado di trattenere.
A parte questo, o forse proprio grazie a tale sensibilità così lucida e tormentata, l’Ortese è riuscita a dare come pochi altri un quadro intenso e drammatico della Napoli dell’epoca, con uno sguardo che si tinge a tratti di sfumature visionarie, pur serbando un impatto estremamente realistico. Ed è proprio per questo che si rimane tanto colpiti nel leggerla, affascinati e nello stesso tempo turbati da ciò che viene descritto.