Oggi vi propongo una Kurzgeschichte (racconto breve) che mi ha letteralmente incantata: non ho parole per descriverne la delicata bellezza, per elogiarne la forza espressiva. Scritta da Heinrich Böll nell’immediato dopoguerra, fa parte della raccolta “Viandante, se giungi a Spa…”, rappresentativa della cosiddetta Trümmerliteratur (letteratura delle macerie, 1945-50), di cui sono stati esponenti altri scrittori dell’epoca, quali ad esempio Borchert e Schnurre. Lo scopo era quello di presentare temi e problemi della Germania postbellica attraverso dei testi concisi e realistici (sullo stile delle short-story americane), in modo da mantenere vivo il ricordo della guerra e delle sue devastanti conseguenze. Si tratta quindi di frammenti di vita dal finale spesso aperto, di istantanee che ritraggono le esperienze dei sopravvissuti, della gente senza più casa e dei reduci mutilati, e di tutti coloro che dovevano fare i conti con la realtà delle città distrutte e con la prospettiva di una faticosa ripresa. In altre parole, è la rappresentazione “della guerra vissuta come trauma” attraverso delle vicende individuali che si muovono su uno sfondo segnato da case diroccate, da periferie ingombre di rottami e sporcizia, da ponti e ferrovie in condizioni precarie. Desolazione, fame e povertà sono gli elementi che predominano su tutto, tradotti in parole così come apparivano in quei tragici anni allo sguardo umano.
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Guarda il cieco che spara al mondo / proiettili che volano

Di canzoni che hanno la guerra come tema di fondo ce ne sono state tante. Di quelle risalenti agli anni ’60-’70, che esprimevano un desiderio di pace e il disagio per la guerra nel Vietnam, diventate poi un inno per intere generazioni, mi vengono in mente Masters of War di Bob Dylan (1963), War pigs dei Black Sabbath (1970), Imagine di John Lennon (1971), solo per fare qualche esempio. Tra quelle degli anni ’80 ricordo invece Brothers In Arms, dei Dire Straits (1985), e l’altrettanto significativa Civil War, dei Guns N’Roses (1991). Se ve ne vengono in mente altre, citatele pure nei commenti.
Nel frattempo vi propongo un brano che, a mio parere, esprime in modo efficace tutta la sofferenza, la rabbia, il dolore straziante di chi si trova, allora come oggi, catapultato in circostanze così drammatiche. Mi riferisco a Child in time, della band hard rock Deep Purple, uscito nel 1970 e diventato in breve tempo il cavallo di battaglia del gruppo nelle performance dal vivo, grazie alle prestazioni vocali del cantante Ian Gillan, a dir poco portentose.
La canzone inizia con un giro di organo Hammond (più sotto trovate il video per ascoltarla, da una ripresa live datata luglio 1970) eseguito dal tastierista Jon Lord, a cui si aggiunge un po’ alla volta la magnifica voce di Gillan, che da inizialmente lenta procede in un crescendo sempre più acuto e drammatizzato… Personalmente trovo fantastico anche il pezzo centrale del brano, valorizzato dalla performance di Ritchie Blackmore, tra i più bravi chitarristi dell’epoca (forse ricorderete il suo celeberrimo riff nel mitico Smoke on the Water). Poi alla fine entra in scena di nuovo Gillan, che spinge la ballata blues verso un altro giro di acuti, ancora più dolorosi e strazianti di quelli precedenti. Nelle sue urla, in quelle urla (che sono da brivido) io ci vedo il dolore delle vittime di ogni guerra e di ogni tempo, non solo di quelle vietnamite.
La luna e i falò

Mentre si legge questo romanzo sembra quasi di ascoltare le storie di una volta, quelle sussurrate a voce bassa davanti a un caminetto acceso, dense di ricordi del passato, di nostalgiche malinconie. Ai tempi della scuola non lo avevo apprezzato, forse perché il ritorno del protagonista alle proprie origini, con quel suo continuo scrutare ogni cosa per vedere se fosse cambiata, mi indisponeva non poco, e forse anche perché molte pagine mi erano apparse lente e noiose. Rileggendolo invece negli ultimi tempi l’ho riscoperto poetico e piacevolissimo, sebbene la trama non sia proprio di quelle allegre. Probabilmente è uno di quei libri che si apprezzano maggiormente nell’età adulta o ad una seconda lettura. La cadenza narrativa è infatti molto lenta e a tratti monotona, anche perché non accade quasi nulla per tutta la durata del romanzo a parte negli ultimi capitoli, dove la descrizione di alcuni fatti tragici tende ad accentuarne il tono emotivo.
Forse la scarsa attrazione che avevo provato la prima volta nel seguire queste vicende dipende anche dal fatto che fin dall’infanzia sono stata sradicata dalle mie radici native e poi sono cresciuta senza l’interesse di recuperarle, anche a causa di ripetuti traslochi che ho dovuto affrontare con la mia famiglia. Mi sento infatti come una pianta che è stata più volte estirpata e ripiantata in altri terreni, ma alla quale il sole e la luce non sono comunque mancati. Non ho quindi maturato quel senso di rimpianto e attaccamento a un luogo che appare invece così evidente nel narratore-protagonista di questo romanzo, soprannominato Anguilla, che dopo aver vissuto per molti anni in America sente il desiderio impellente di ritornare nelle Langhe cuneesi, l’amata terra d’origine. Tale spinta proviene anche dal fatto che, dopo aver girato tanto il mondo, «uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che non un comune giro di stagione.»
Espiazione

Di McEwan viene in genere apprezzata l’abilità con cui riesce a cesellare personaggi, situazioni e contesti ambientali, come anche la capacità di passare al vaglio del setaccio ogni tipo di emozione umana. I suoi libri possono essere più o meno intensi, più o meno avvincenti, ma sono sempre accomunati da uno stile limpido e preciso fin nel dettaglio, da una struttura narrativa pressoché perfetta e da una meticolosa preparazione di base per qualsiasi tematica affrontata.
Definito spesso dalla critica un mago delle parole per la capacità con cui sa trasmettere immagini e sentimenti in modo quasi visivo, questo scrittore è riuscito a farsi apprezzare anche per la tensione e l’inquietudine che spesso infonde alle sue storie, che si rivelano quasi sempre appassionanti fino all’ultima pagina.
Espiazione è uno dei suoi romanzi forse più belli, oltre che tra i più famosi, da cui è stato tratto anche un film per la regia di Joe Wright, con la splendida Keira Knightley nel ruolo di Cecilia. Un film a mio parere intenso quanto il libro; un caso piuttosto raro, a dire il vero, visto che spesso le trasposizioni cinematografiche storpiano senza alcuna pietà le trame dei romanzi.
La storia inizia a Villa Tallis, nella campagna inglese dei primi anni Trenta, e ci presenta la protagonista Briony, una vivace tredicenne aspirante scrittrice, nel momento esatto in cui si affanna ad imbastire una rappresentazione teatrale per festeggiare il ritorno dell’adorato fratello maggiore. Briony è una ragazzina caratterialmente complessa e dotata di vena creativa, alle prese con tutte le emozioni adolescenziali tipiche della sua età; una bambina che crede di capire così tanto delle “cose dei grandi” da non preoccuparsi della possibilità di errori e limiti nella percezione reale degli eventi. In altre parole, Briony condensa nella sua personalità tutta quell’ingenua e insopportabile presunzione che è tipicamente infantile. Ed è proprio questa caratteristica che la spingerà a fraintendere una scena di intensa passione tra sua sorella Cecilia e Robbie, il figlio di una domestica, scambiandola per una violenza imposta. Un abbaglio di comprensione provocato dai turbamenti per una realtà che non conosce, per di più alimentato da una fervida immaginazione, che da lì a poco la spingerà – dopo un fatto grave e imprevisto accaduto ad una cugina – ad avanzare delle accuse terribili nei confronti del povero Robbie, che in realtà è totalmente innocente. Da quel momento, senza rendersene conto e senza volerlo veramente, Briony rovinerà irrimediabilmente la vita di una coppia di giovani innamorati, infliggendosi un debito talmente grosso che ben presto le risulterà insostenibile. Poi nel corso degli anni, passando da un’esperienza di vita all’altra, Briony cercherà di fare di tutto per arginare e quietare i morsi della coscienza, fino al punto di elaborare un’altra sorprendente suggestione, questa volta però voluta e intenzionale…
L’offesa

Anche se mi rendo conto di non fare proprio una bella figura, confesso che questo libro l’avevo acquistato soprattutto per la splendida copertina, attratta dal contrasto dei colori e dall’originalità dell’immagine. Passavo di fretta in libreria e non avevo il tempo di fermarmi per curiosare tra le pagine. Evento più unico che raro nella mia vita, per una volta mi sono affidata completamente all’istinto senza dovermene pentire. Ho infatti scoperto con grande piacere un bravo scrittore spagnolo contemporaneo, peraltro già stimato e pluripremiato in patria.
Il romanzo, scorrevole e suggestivo, riesce a condensare in poche pagine tutto l’orrore della Seconda Guerra Mondiale attraverso la drammatica vicenda di Kurt Crüwell, un giovane sarto tedesco chiamato alle armi. Kurt sognava di sposarsi e di prendere le redini della sartoria paterna a Bielefeld, e invece un brutto giorno deve lasciare l’amore e le sue passioni, tra le quali anche la musica, per affrontare l’esperienza del fronte. Siamo nell’autunno del 1939: la Germania invade la Polonia e nel giro di un anno occupa anche Belgio e Francia. La divisione militare di Kurt sosta per diverso tempo nei pressi di Parigi, poi si accampa in una zona della Bretagna; qui le giornate dei soldati trascorrono abbastanza tranquille, finché un militare viene catturato e decapitato dai partigiani francesi. La rappresaglia tedesca sarà terribile: il 2 gennaio 1941 novantun civili francesi, soprattutto vecchi, donne e bambini, vengono arsi vivi nella chiesa di Mieux, un piccolo paese nelle vicinanze.
Cuore di pietra

Il romanzo parte dall’Unità d’Italia e arriva fin quasi ai nostri giorni, gravitando intorno a un’imponente villa realizzata da un architetto megalomane, nelle cui stanze si avvicendano proprietari e inquilini ogni volta diversi. Di generazione in generazione, a partire dalla famiglia del conte Basilio Pignatelli, ci ritroviamo a seguire gli avvenimenti di questa grande casa, di ciò che avviene all’interno del suo “cuore di pietra”. Una casa che, nonostante l’invecchiamento provocato dallo scorrere degli anni, non si scompone mai davanti alle speranze, agli amori, alle delusioni, alle beghe e alle morti dei suoi occupanti. Anche se l’intonaco si sgretola e le tegole si incrinano, anche se la pioggia riesce a infiltrarsi nelle fessure delle soffitte, la grande villa resiste imperterrita ad ogni attacco del tempo e fa da testimone alla storia d’Italia, ad avvenimenti sociali e politici come le guerre mondiali, il fascismo, la resistenza, il socialismo e i moti proletari, che via via si intrecciano con le faccende personali delle persone che la abitano. La nostra casa assiste impassibile anche alla diffusione della bicicletta, della Fiat Topolino e di quel moderno “specchio dei sogni” che si chiama televisione. Soltanto alla fine del libro comincerà a ripiegarsi su se stessa, perderà il suo fascino nobiliare e cederà alla propria fatiscenza, diventando un ospizio malsano per i diseredati.
Nel corso della narrazione l’interesse dell’autore si focalizza soprattutto sugli italiani, sulle reazioni emotive della gente comune, mentre i fatti storici e i grandi personaggi rimangono un po’ sullo sfondo, come un eco che si riflette sulla vita della comunità. Tra le righe trapelano critiche sulla politica italiana, con un’ironia che demitizza non solo il fascismo ma anche tutti gli altri schieramenti politici che la nostra penisola ha visto nascere. Mussolini, ad esempio, viene sempre citato come l’Uomo della Provvidenza, dipinto ironicamente come un sole che sorge e tramonta tutti i giorni, ma non vengono risparmiate frecciatine sarcastiche neppure agli intellettuali della sinistra, <<giovanotti sussiegosi, con la barba o senza la barba, con gli occhialini cerchiati d’oro o senza occhialini>>, sempre pronti al trasformismo e alla ricerca del potere, che guardavano <<con commiserazione chiunque non parlasse o ragionasse come loro, con le stesse frasi fatte e le stesse parole>>.