Il senso dell’elefante

Il senso dell’elefante, Marco Missiroli, Guanda, 2012, 235 p.
Il senso dell’elefante, Marco Missiroli, Guanda, 2012, 235 p.

Marco Missiroli scrive discretamente bene, con uno stile lento, misurato ed essenziale che lo pone al di fuori delle solite tendenze. E per quel che può valere, negli ultimi anni è riuscito ad ottenere anche dei riconoscimenti: il Campiello opera prima per il romanzo Senza coda (2005), il Premio Insula romana per Il buio addosso (2008), il Premio Comisso e il Premio Tondelli per il romanzo Bianco (2009). Ma se per quest’ultimo libro avevo tessuto delle lodi, per quello di oggi non posso fare altrettanto. L’inizio è poco coinvolgente e al limite del noioso, poi la storia prende finalmente piede assumendo un ritmo più interessante, ma nel complesso rimane qualcosa che non mi convince.

Il protagonista è Pietro, un ex prete che si reca a Milano per fare il portinaio in un caseggiato. Riservato e taciturno, con un carattere forse poco adatto alla nuova mansione, riesce comunque a diventare un punto di riferimento per diverse persone. Forse perché è capace di “ascoltare”, qualità assai rara nella nostra epoca attuale dove tutti si mettono in piazza o si parlano addosso. Nel condominio pullula una variegata umanità, dall’avvocato omosessuale pedante e caustico al giovane strambo e problematico, dalla moglie fedifraga alla vedova inconsolabile, tutti alle prese con problematiche esistenziali più o meno grandi. Il modo di osservare di Pietro è discreto ma chirurgico; agli occhi degli altri sembra una persona quasi invisibile, ma in realtà fotografa tutto quello che vede, non si lascia sfuggire nulla. Talvolta interviene in modo discreto per dare un aiuto a qualcuno, per favorire delle piccole svolte, non si capisce se per autentico interesse o per l’abitudine del ruolo precedentemente svolto. Diciamo che il suo carattere viene tratteggiato in modo un po’ ambiguo, nel senso che chi legge fatica a coglierne la vera natura e le reali intenzioni. Appare invece chiaro che l’ex-prete nasconde dei segreti e che se si trova in quel palazzo non è di certo per fare il custode o il risolutore perpetuo dei problemi altrui. I suoi interessi sono infatti concentrati in modo ossessivo sulla famiglia Martini, composta da un medico pediatra che vive con la moglie e la figlia piccola. Un giorno Pietro arriva addirittura al punto di entrare di nascosto nel loro appartamento per curiosare e rovistare tutt’intorno: un atteggiamento non solo irrispettoso ma anche deplorevole, che non sfugge all’occhio attento dell’avvocato.

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Bianco

Bianco, Marco Missiroli, Guanda, 2009, 225 p.
Bianco, Marco Missiroli, Guanda, 2009, 225 p.

Marco Missiroli è salito alla ribalta nel 2005 con il romanzo “Senza coda”, una vicenda di mafia osservata attraverso lo sguardo di un ragazzino, vincitore del Premio Campiello opera prima. Un autore che per molti è stato una rivelazione, non solo per la giovane età (riminese, classe 1981) ma anche per lo stile narrativo asciutto, nitido e nello stesso tempo intenso, vibrante, che riesce con pochi tratti veloci e incisivi a dar forma a volti, sguardi, gesti che contano più di mille parole. Uno stile che in parte ricorda quello degli scrittori nordamericani.
Per quanto riguarda il libro che mi appresto a recensire, bisogna dar merito all’autore di essersi saputo calare molto bene nella realtà statunitense del secolo scorso, così lontana dal nostro modo di vedere e intendere le cose. Siamo nel Sud degli Usa, non ci sono precisi riferimenti di tempo e di luogo ma dalle varie descrizioni si intuisce che l’epoca è quella delle violente discriminazioni razziali. Sono gli anni in cui i neri vengono ancora disprezzati e osteggiati, considerati come bestie o figli del diavolo. Il Ku Klux Klan, i cui adepti sono rigorosamente di razza bianca, di ceppo anglosassone e di fede protestante, agisce con tutta la sua ferocia contro neri, ebrei, cattolici e immigrati, soprattutto nei centri periferici dove la legge tende a chiudere un occhio. Questa cultura di rifiuto e di persecuzione nei confronti del diverso viene inculcata ai bambini bianchi fin dall’infanzia, complici gli educatori, i preti e le stesse famiglie. In nome di Dio si incita a ripulire la società dalla presenza immonda del “negro”. Sono quindi anni di ottuso conformismo e Moses Carpenter cresce in questo clima, costretto all’odio dalle cinghiate del padre, diviso tra il suo desiderio di rapporti umani basati sulla giustizia e il bisogno di rispondere alle aspettative razziste del gruppo che lo circonda. Il suo peccato più grande, per cui si tormenta ora che è vecchio, è quello di non aver avuto la forza di opporsi, di aver tradito chi non avrebbe voluto tradire. Tormentato dalla perdita della moglie, che aveva sempre disapprovato le sue idee intolleranti, Moses deve ora affrontare l’arrivo di una nuova famiglia in paese, di cui tre componenti su quattro sono di colore. Quello che desta più scalpore di questa famiglia è l’unione tra una donna bianca e un uomo nero, assolutamente inconcepibile per la gente del posto. La comunità razzista di un tempo invoca l’appoggio di Moses, lo incita ad assumere provvedimenti drastici, ma il vecchio si riscopre vacillante, inizia a mettere in dubbio certezze e convinzioni. L’antico retaggio di odio instillato dal padre comincia a cedere, a rivelare delle crepe… Per Moses è la spinta ad una progressiva trasformazione, l’imbocco di un difficile percorso di redenzione che all’inizio lo vede ancora titubante ma che alla fine lo spingerà a saldare il debito con il passato.

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Igiene dell’assassino

Igiene dell’assassino, Amélie Nothomb, Le Fenici, 2009, 175 p
Igiene dell’assassino, Amélie Nothomb, Guanda, 2009, 175 p

Concedetemi di aprire di nuovo il sipario su questa bizzarra scrittrice, anche se finora non ho avuto il piacere di conoscere altri suoi fan (a parte la blogger di Diari alaskani). Lo so, fa uno strano effetto vedere Amélie nelle foto con quel cappellaccio da fattucchiera conficcato sulla testa, avvolta in un pastrano nero che neppure Morticia Addams avrebbe il coraggio di indossare, e con quel make-up cadaverico che contrasta di brutto con il colore del rossetto, però bisogna ammettere che questa donna, quando mette mano alla penna, è capace di dar vita a qualcosa di unico e irrepetibile, soprattutto in termini di fulminante ironia. Per lei la penna è come un bisturi affilato da incidere nel foglio, o meglio nella psiche di quei personaggi che inventa con tanta originale maestria, e sinceramente non mi interessa sapere se questo nasce dal bisogno di esorcizzare qualcosa di intimo attraverso la scrittura, così come non mi interessa scoprire fino a che punto ostenti sé stessa a scopo pubblicitario, perché a me basta e avanza “godermi” il frutto del suo talento.
I suoi romanzi, che partorisce con la frequenza di tre all’anno (così come afferma nelle interviste, anche se poi ne pubblica solo uno), si collocano al di fuori di ogni schema abituale e sono valorizzati da una scrittura schietta e trasgressiva, che non si pone limiti nell’indagine delle miserie umane. Le situazioni paradossali che Amélie ama affrontare non sono quindi fini a se stesse, ma si rivelano sempre un pretesto per esplorare a fondo ciò che si cela dietro le apparenze. Al suo occhio indagatore, a cui non sfugge nulla, interessa più che altro esplorare l’animo umano, che tende a denudare fino all’estremo per scovarci ogni sorta di delirio o perversione, senza per questo scivolare in descrizioni volgari o scadenti.

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Ogni cosa è illuminata

Ogni cosa è illuminata, Jonathan Safran Foer, Guanda, 2002, 327 p.
Ogni cosa è illuminata, Jonathan Safran Foer, Guanda, 2002, 327 p.

Questo è un libro che ho letto molti anni fa, ma è come se l’avessi letto ieri. Nel 2002 Jonathan Safran Foer, scrittore americano di origine ebrea, aveva sorpreso tutti, sia pubblico che critica, con tale esordio, sia per la sua giovane età che per lo stile narrativo inusuale e spiazzante. Uno stile che all’inizio tende appunto a confondere le idee, ma che dopo una cinquantina di pagine diventa sempre più scorrevole e coinvolgente. Lo definirei un romanzo tragico, straziante e nello stesso tempo piacevole e spassoso, per quanto possa sembrare paradossale la mia affermazione; eppure non trovo un altro modo per descriverlo, perché è un libro che alterna pagine estremamente commoventi e dense di significato ad altre più leggere e decisamente comiche.

Il protagonista è un giovane ebreo americano di nome Jonathan (l’allusione allo scrittore è evidente), che colleziona in maniera ossessiva tutti gli oggetti che hanno fatto parte della sua famiglia. Trovando una fotografia in cui suo nonno è in compagnia di una donna sconosciuta, forse colei che lo ha salvato dai nazisti durante gli stermini di massa, decide di andare in Ucraina con l’intenzione di scoprire la verità. Durante il viaggio gli si affiancano ben presto dei personaggi alquanto particolari: una guida locale di nome Alexander Perchov, detto Alex, tanto bislacco quanto simpatico, lo scorbutico nonno dello stesso Alex, che nonostante la dichiarata e ostentata cecità si rivela un guidatore abbastanza affidabile, e un’amabile cagnolina rompiscatole, che ha la pessima abitudine di scoreggiare.

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