Eugénie Grandet

Eugénie Grandet,  Honoré de Balzac, Garzanti, 2013, 175 p.
Eugénie Grandet, Honoré de Balzac, Garzanti, 2013, 175 p.

Il romanzo, che si ascrive alla corrente realista e fa parte di quel grandioso affresco della società francese ottocentesca che va sotto il nome di “La Comédie humaine”, rispecchia la visione di Balzac per la borghesia del suo tempo, considerata gretta, arida, accecata dal guadagno e quindi condannata alla solitudine materiale e spirituale.
Uno dei personaggi centrali è infatti Felix Grandet, un ex bottaio che si è arricchito grazie a delle speculazioni e che nasconde dentro casa, in una stanza di cui solo lui ha le chiavi, soldi e preziosi accumulati negli anni, costringendo la moglie e la figlia Eugénie ad uno stile di vita morigerato, senza alcuna concessione ai più piccoli piaceri. Per darvi un’idea della sua grettezza, che non ha nulla da invidiare a quella dell’Arpagone di Molière, vi basti pensare che questo marito padre padrone costringe tutta la famiglia ad indossare abiti vecchi e logori, a vivere in camere malamente riscaldate d’inverno, a risparmiare addirittura sulle zollette di zucchero o sulla quantità di sapone da usare per il bucato. Ma la cosa più urtante di quest’uomo, che bisogna immaginarselo con una corporatura tozza e le spalle larghe, con la faccia tonda e la fronte rugosa, con i capelli gialli e brizzolati, con le labbra sottili e una grande verruca sul naso, è l’odiosa reazione che manifesta ogni volta che coglie in fallo qualcuno, quando si accorge che uno dei suoi tanti diktat è stato violato. In questi frangenti diventa acido e furioso, cinico e molesto, totalmente noncurante della sensibilità altrui, al punto da risultare fastidioso anche per il lettore. E questo va naturalmente a merito dello scrittore, che ha saputo rendere così bene le suddette situazioni.

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Il senso dell’elefante

Il senso dell’elefante, Marco Missiroli, Guanda, 2012, 235 p.
Il senso dell’elefante, Marco Missiroli, Guanda, 2012, 235 p.

Marco Missiroli scrive discretamente bene, con uno stile lento, misurato ed essenziale che lo pone al di fuori delle solite tendenze. E per quel che può valere, negli ultimi anni è riuscito ad ottenere anche dei riconoscimenti: il Campiello opera prima per il romanzo Senza coda (2005), il Premio Insula romana per Il buio addosso (2008), il Premio Comisso e il Premio Tondelli per il romanzo Bianco (2009). Ma se per quest’ultimo libro avevo tessuto delle lodi, per quello di oggi non posso fare altrettanto. L’inizio è poco coinvolgente e al limite del noioso, poi la storia prende finalmente piede assumendo un ritmo più interessante, ma nel complesso rimane qualcosa che non mi convince.

Il protagonista è Pietro, un ex prete che si reca a Milano per fare il portinaio in un caseggiato. Riservato e taciturno, con un carattere forse poco adatto alla nuova mansione, riesce comunque a diventare un punto di riferimento per diverse persone. Forse perché è capace di “ascoltare”, qualità assai rara nella nostra epoca attuale dove tutti si mettono in piazza o si parlano addosso. Nel condominio pullula una variegata umanità, dall’avvocato omosessuale pedante e caustico al giovane strambo e problematico, dalla moglie fedifraga alla vedova inconsolabile, tutti alle prese con problematiche esistenziali più o meno grandi. Il modo di osservare di Pietro è discreto ma chirurgico; agli occhi degli altri sembra una persona quasi invisibile, ma in realtà fotografa tutto quello che vede, non si lascia sfuggire nulla. Talvolta interviene in modo discreto per dare un aiuto a qualcuno, per favorire delle piccole svolte, non si capisce se per autentico interesse o per l’abitudine del ruolo precedentemente svolto. Diciamo che il suo carattere viene tratteggiato in modo un po’ ambiguo, nel senso che chi legge fatica a coglierne la vera natura e le reali intenzioni. Appare invece chiaro che l’ex-prete nasconde dei segreti e che se si trova in quel palazzo non è di certo per fare il custode o il risolutore perpetuo dei problemi altrui. I suoi interessi sono infatti concentrati in modo ossessivo sulla famiglia Martini, composta da un medico pediatra che vive con la moglie e la figlia piccola. Un giorno Pietro arriva addirittura al punto di entrare di nascosto nel loro appartamento per curiosare e rovistare tutt’intorno: un atteggiamento non solo irrispettoso ma anche deplorevole, che non sfugge all’occhio attento dell’avvocato.

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Assandira

Assandira, Giulio Angioni, Sellerio, 2004, 239 p.
Assandira, Giulio Angioni, Sellerio, 2004, 239 p.

Un libro che mi è capitato tra le mani per caso, un autore sardo che non conoscevo. In realtà l’unico scrittore sardo che ho letto finora, ma non mi dispiacerebbe scoprirne altri. La trama è molto particolare e fuori dall’ordinario, sembra quasi un giallo ma non è un giallo, anche perché l’intento di Angioni, docente di antropologia culturale all’Università di Cagliari, era probabilmente quello di indagare le difficoltà di integrazione tra passato e presente, tra vecchio e nuovo, tra un padre e un figlio separati da differenze d’età, mentalità e cultura, seppure in forma romanzata.

La storia inizia con un incendio devastante che distrugge Assandira, un agriturismo che prende il nome dal ritornello di un’antica nenia sarda. Tra le ceneri, sotto la pioggia, rimane solo il vecchio Costantino, distrutto dal dolore per la perdita del figlio Mario. Chi sarà stato e per quale motivo a causare questo incendio, la cui natura dolosa è confermata dalle indagini degli inquirenti? L’agriturismo era stato allestito da Mario e dalla sua compagna Grete, un’avvenente e intraprendente danese, per offrire ai turisti la possibilità di una vacanza alternativa. In questo luogo, ricostruito secondo i criteri tradizionali più rigidi, veniva simulata quotidianamente una parodia dell’antico mondo pastorizio per il divertimento dei vari ospiti facoltosi. Questi potevano infatti assistere alla mungitura, al parto e all’accoppiamento degli animali, oltre che gustare le pietanze di un tempo servite da un personale in costume.

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Nati due volte

Nati due volte, Giuseppe Pontiggia, Oscar Mondadori, 2004, 232 p.
Nati due volte, Giuseppe Pontiggia, Oscar Mondadori, 2004, 232 p.

I bambini disabili, come suggerisce il titolo del libro e come scrive lo stesso Pontiggia, nascono due volte: «La prima li vede impreparati al mondo, la seconda è una rinascita affidata all’amore e all’intelligenza degli altri».
Anche i genitori di un disabile sono costretti a nascere una seconda volta, in modo da poter accettare e amare il figlio con tutti i suoi limiti. “Accettare” non è, come spesso accade, un rassegnarsi irritato e frustrato alla disabilità, come se fosse un’ingiustizia imposta da dio o dal destino, ma è piuttosto riuscire a vedere nella persona che ne è coinvolta una sua peculiare “forma di esistenza”, riconoscendone e apprezzandone la personalità unica e autentica.
In questo intelligente romanzo, che sembra quasi un saggio e che non ha nulla di patetico o lacrimevole, meritatamente premiato con il Campiello nel 2001, Giuseppe Pontiggia (che è stato narratore, saggista e critico letterario di grande pregio, scomparso nel 2003) fa rivivere “in parte” la sua esperienza personale, quella di un padre che deve affrontare la difficile condizione di un figlio disabile. Un percorso difficile e irto di ostacoli dalla nascita fino all’adolescenza, dove il giovane Paolo, affetto da tetraparesi spastica, deve riuscire a ritagliarsi un proprio spazio tra i cosiddetti “normali” (che spesso sono meno normali di quanto sembrano), imparando ad accettarsi e a farsi accettare. Non per voler appartenere ad ogni costo alla pregiata schiera dei normodotati, in realtà così labile e difettosa nella sua essenza, ma per avere il semplice diritto di sentirsi se stesso, amato e rispettato senza pietismi e ipocrisie di sorta. Una cosa facile da dire ma difficile da mettere in pratica, perché capita a tutti noi indistintamente di provare un certo tipo di imbarazzo di fronte ad una grave forma di handicap, magari anche solo per il fatto di non saper bene quale atteggiamento assumere di fronte al soggetto che abbiamo di fronte. E Pontiggia è riuscito a raccontare tutto questo con estrema lucidità e trasparenza, con senso critico e autocritico, senza mai cadere nel sentimentalismo o nell’autocommiserazione.

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Nessuna fuga è possibile

Il borgomastro di Furnes, Georges Simenon, Gli Adelphi, 2012, 227 p.
Il borgomastro di Furnes, Georges Simenon, Gli Adelphi, 2012, 227 p.

Joris Terlinck, borgomastro di Furnes: un uomo austero e inflessibile con tutti, anche con se stesso, uno che si è costruito da solo la sua fortuna e quindi convinto per questo di non dover niente a nessuno. Chiamato da tutti Baas, ossia padrone, “non solo a casa sua, non solo nella sua manifattura di sigari, ma anche in municipio, al caffè e addirittura per strada”. Come sempre Simenon ci offre con pochi tratti un quadro esauriente dei personaggi, come quando ci racconta che Terlinck indossava per tutto l’inverno un cappotto corto foderato di pelliccia e “in testa portava un berretto nero di lontra che accentuava il rosso acceso dei baffi e il blu ardesia degli occhi”; o come quando ci spiega che dopo aver tirato fuori un sigaro dalla tasca lo faceva crocchiare un po’ tra le dita, poi l’accendeva e “toglieva il bocchino d’ambra dall’astuccio che, richiudendosi, produceva un rumore secco molto caratteristico”. Un rumore inconfondibile che segnalava subito la sua presenza agli altri, ovunque si trovasse… Da tali descrizioni sembra quasi di vederlo davanti a noi questo signor Terlinck, magari mentre ci fissa attraverso le volute di fumo del suo sigaro, mentre ci osserva non come si guarda un essere umano, un proprio simile, ma come si guarda una cosa, un oggetto qualsiasi, un muro o la pioggia che cade. Perché questa era la sensazione che trasmetteva il suo sguardo agli altri: una fredda indifferenza per tutto ciò che non lo riguardava. Impressionante anche la descrizione della moglie Thérésa, talmente remissiva da trasalire ogni volta che lui rincasava, come se dopo anni di matrimonio non si fosse ancora abituata alla sua presenza. Una donna con occhi fatti solo per piangere e con stampata sulla faccia un’eterna espressione di sgomento, come se da un momento all’altro dovesse sempre accadere qualcosa.

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