La recita di Bolzano

La recita di Bolzano, Sàndor Màrai, Adelphi, 2012, 264 p.
La recita di Bolzano, Sàndor Màrai, Adelphi, 2012, 264 p.

Giaceva di traverso e dormiva appassionatamente, dimentico di sé, con la testa madida di sudore, a gambe larghe e braccia spalancate, un sorriso stanco e sprezzante sulle labbra, come se intuisse che lo stavano guardando dal buco della serratura.

In effetti qualcuno lo stava osservando, passando con sguardo curioso dal suo viso cupo e sgraziato, già inciso da molte rughe, al suo naso grande e carnoso, al mento aguzzo e prepotente. Lo spettacolo era infatti quello di un uomo abbastanza brutto e avanti con gli anni, al che Teresa, la serva della locanda dove lo straniero aveva da poco pernottato, si stava domandando cosa potesse avere di tanto speciale da risultare così affascinante agli occhi di tutti, in particolare a quelli delle donne, visto che dopo la rocambolesca fuga dal carcere di Venezia la sua fama di avventuriero, passando di bocca in bocca, dai mercati alle osterie, l’aveva preceduto ancor prima dell’arrivo a Bolzano. Teresa lo stava insomma spiando senza troppo pudore, in compagnia di altre comari morbose e indiscrete, neanche fosse una specie rara, uno strano animale in via d’estinzione.

Era come se attraverso il buco della serratura avessero visto finalmente un uomo, come se, nell’attimo stesso in cui avevano posato gli occhi sullo sconosciuto immerso nel sonno, avessero sottoposto i loro mariti, i loro amanti e gli altri uomini incontrati fino a quel momento a un esame imprevisto.

Perché i maschi – come intuirono le femmine in quell’attimo così esaltante – erano di solito padri e mariti a cui piaceva ostentare atteggiamenti virili, darsi arie di superiorità, correre dietro le gonnelle, esibire patrimoni, pavoneggiarsi con cariche e titoli fino a rasentare il ridicolo, mentre riguardo a questo forestiero si dicevano cose ben diverse. Girava ad esempio la voce che egli fosse un truffatore perseguitato da creditori e strozzini inferociti, un reietto dell’umanità inseguito dagli sbirri e da mute di cani attraverso le frontiere, incalzato addirittura dai mercenari dell’Inquisizione per peccati commessi contro la morale e la virtù, ma che nello stesso tempo fosse anche un uomo che non pretendeva dalle donne tenerezze diverse da quelle che era in grado di offrire, che non aveva bisogno di alzare la voce per dimostrare qualcosa o di gonfiare il petto per declamare i suoi sentimenti. Un vero uomo, insomma, come in giro non se ne trovavano più, e che era tale con ostinazione e fino in fondo, così come una quercia è semplicemente una quercia e una roccia è semplicemente una roccia; un uomo, in definitiva, che voleva soltanto dare e ricevere, senza fretta e senza avidità, perché ha dedicato l’intera esistenza, ogni sua fibra, ogni barlume della sua coscienza e ogni muscolo del suo corpo al richiamo imperioso della vita.

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Memoriale del convento

Memoriale del convento, José Saramago, Feltrinelli, 2010, 319 p
Memoriale del convento, José Saramago, Feltrinelli, 2010, 319 p

Ci troviamo in Portogallo, nel XVIII secolo. Giovanni V si impegna due sere a settimana ma non c’è nulla da fare, Maria Anna Giuseppa d’Austria non ne vuol sapere di rimanere incinta. Sembra quasi una beffa del destino, visto che al di fuori del letto nuziale il re ingravida con grande facilità a destra e manca, al punto di aver disseminato decine di bastardi per tutto il regno. Ma Dio è grande. Un giorno, infatti, giunge alla corte un francescano che gli assicura che presto vedrà la nascita di un erede, basta che in cambio il sovrano si impegni a costruire un convento  nella città di Mafra. Il re non ci pensa due volte, ne fa solenne promessa e in breve tempo il Signore, quello che sta nell’alto dei cieli, gli concede l’agognato erede, seppur femmina, colei che poi sarà la principessa Maria Barbara.

Sembra quasi una favola, invece si tratta di una vicenda che ha veramente coinvolto la corona portoghese dando l’avvio all’edificazione dell’imponente edificio di Mafra, costituito da un palazzo, da un convento per trecento religiosi e da una basilica di dimensioni tali da competere con quella di San Pietro. Perché Giovanni V, diciamolo pure, un tantino megalomane lo era. Fatto sta che tale costruzione richiese anni di duro lavoro e migliaia di uomini trattati come schiavi, sorvegliati dai soldati e costretti ad un lavoro semi-forzato. Uomini che spesso ci lasciavano la pelle, per la fatica e il rischio che tale impresa comportava.
Ma in fondo, lo sappiamo, la storia è sempre quella da quando è nato il mondo, i nobili e i regnanti da una parte, a sguazzare nei lussi e negli sfarzi, con la benedizione di un clero spesso compiacente se non perfino machiavellico, e i miserabili della plebe dall’altra, a sudare nei campi, a mangiare patate, a svolgere i lavori più faticosi e sgradevoli. Lisbona, come scrive ironicamente l’autore, è una bocca che mastica troppo da una parte e troppo poco dall’altra, non essendoci quindi una via di mezzo tra il gozzo pletorico e il collo raggrinzito, tra il naso rubicondo e l’altro tisico, tra la chiappa ballerina e quella floscia, tra il ventre pieno e la pancia appiccicata alle costole.

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Il Vangelo secondo Pilato

Il Vangelo secondo Pilato, Eric-Emmanuel Schmitt, San Paolo Edizioni, 2010, 296 p
Il Vangelo secondo Pilato, Eric Emmanuel Schmitt, San Paolo Edizioni, 2010, 296 p

Negli anni passati diversi scrittori si sono cimentati con la figura di Gesù di Nazaret, come ad esempio Giuseppe Berto (La gloria) e José Saramago (Il Vangelo secondo Gesù Cristo), solo per citarne alcuni. E anche se spesso sono stati accusati di approssimazione, di distorsione dei fatti storici o addirittura di blasfemia, credo non si possa negar loro il merito di averci offerto un Messia più autentico e umano, caratterizzato da qualche piccola debolezza che commuove e che ce lo fa sentire ancora più vicino. In fondo la loro è una personale rivisitazione del Cristo e delle sue opere, ogni volta luminosa e toccante, in nessun caso offensiva o triviale. Personalmente non ho quindi trovato indecoroso neppure questo libro di Schmitt, che al contrario è riuscito a coinvolgermi fornendomi interessanti spunti di riflessione.

Nella parte iniziale del romanzo l’autore ci introduce nell’orto del Getsemani, dove un Gesù in raccoglimento ripercorre col pensiero gli eventi più significativi della sua vita. Da questo suo lungo monologo interiore traspare la consapevolezza dell’imminente arresto, ma anche qualche fremito di dubbio sulla propria natura divina:

Questa sera, la morte mi attende in questo giardino. Gli ulivi sono diventati grigi come la terra. I grilli fanno l’amore sotto lo sguardo benevolo di una luna ruffiana. Vorrei essere uno di quei due cedri blu, i cui rami servono da asilo notturno a nugoli di colombe e ospitano nella loro ombra diurna piccoli mercati chiassosi. Come loro vorrei mettere radici, senza preoccupazioni, e dispensare felicità. Invece non ho fatto che seminare granelli che non vedrò né germogliare né sbocciare. Resto in attesa della corte che verrà ad arrestarmi. Padre mio, dammi forza in questo frutteto indifferente alla mia angoscia, dammi il coraggio di andare fino in fondo a quello che, per follia, ho creduto essere il mio compito…

Un Messia quindi umanizzato, dubbioso della propria opera, che affronta con turbamento la rivelazione di sé a sé stesso, e che forse proprio per questo diventa agli occhi di noi lettori più vero e credibile. Ma se da un lato Gesù diffida di sé stesso ed è preoccupato per l’incombente martirio, dall’altro si dimostra sempre più convinto nel portare avanti la missione accettandone ogni conseguenza.

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Le menzogne della notte

Le menzogne della notte, Gesualdo Bufalino, Bompiani, 2010, 140 p.
Le menzogne della notte, Gesualdo Bufalino, Bompiani, 2010, 140 p.

Non so più cos’altro scrivere di Bufalino, se non che il rituffarmi nelle sue pagine mi comporta ogni volta anche il fatto di perdermici dentro, con il rischio di affogare in qualche perifrasi di rara bellezza. E il naufragar m’è dolce in questo mare, per dirla con Leopardi.
Lo so che rischio di ripetermi, ma non posso fare a meno di riflettere su quanto sia difficile trovare oggigiorno uno scrittore capace di esprimersi con tanta poetica ed eleganza stilistica senza che l’una vada a discapito dell’altra. Per carità, non mi aspetto dagli autori moderni delle prestazioni così forbite e per certi aspetti sorpassate, ma qualche etto in più di buono stile e cultura non mi dispiacerebbe affatto. Intendiamoci, tra le tante banalità che i grandi editori danno in pasto alle masse si scopre ogni tanto una perla, magari un po’ in disparte, ma di scrittori capaci di valorizzare a fondo la lingua italiana se ne trovano veramente pochi. Tra gli autori di oggi porterei con me sulla famosa isola deserta Sebastiano Vassalli e Michele Mari (i loro libri, beninteso), mentre per quelli di ieri la scelta è senza dubbio più vasta: si pensi a Landolfi, Calvino, Bassani, Gadda, Pavese, Sciascia e altre simili personalità. Chiudo però adesso questa parentesi con qualche margine di dubbio, ossia in buona fede, visto che tra i contemporanei ho ancora molto da rovistare…

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Cuore di pietra

Cuore di pietra, Sebastiano Vassalli, ET Einaudi, 1998, 290 p.
Cuore di pietra, Sebastiano Vassalli, ET Einaudi, 1998, 290 p.

Il romanzo parte dall’Unità d’Italia e arriva fin quasi ai nostri giorni, gravitando intorno a un’imponente villa realizzata da un architetto megalomane, nelle cui stanze si avvicendano proprietari e inquilini ogni volta diversi. Di generazione in generazione, a partire dalla famiglia del conte Basilio Pignatelli, ci ritroviamo a seguire gli avvenimenti di questa grande casa, di ciò che avviene all’interno del suo “cuore di pietra”. Una casa che, nonostante l’invecchiamento provocato dallo scorrere degli anni, non si scompone mai davanti alle speranze, agli amori, alle delusioni, alle beghe e alle morti dei suoi occupanti. Anche se l’intonaco si sgretola e le tegole si incrinano, anche se la pioggia riesce a infiltrarsi nelle fessure delle soffitte, la grande villa resiste imperterrita ad ogni attacco del tempo e fa da testimone alla storia d’Italia, ad avvenimenti sociali e politici come le guerre mondiali, il fascismo, la resistenza, il socialismo e i moti proletari, che via via si intrecciano con le faccende personali delle persone che la abitano. La nostra casa assiste impassibile anche alla diffusione della bicicletta, della Fiat Topolino e di quel moderno “specchio dei sogni” che si chiama televisione. Soltanto alla fine del libro comincerà a ripiegarsi su se stessa, perderà il suo fascino nobiliare e cederà alla propria fatiscenza, diventando un ospizio malsano per i diseredati.

Nel corso della narrazione l’interesse dell’autore si focalizza soprattutto sugli italiani, sulle reazioni emotive della gente comune, mentre i fatti storici e i grandi personaggi rimangono un po’ sullo sfondo, come un eco che si riflette sulla vita della comunità. Tra le righe trapelano critiche sulla politica italiana, con un’ironia che demitizza non solo il fascismo ma anche tutti gli altri schieramenti politici che la nostra penisola ha visto nascere. Mussolini, ad esempio, viene sempre citato come l’Uomo della Provvidenza, dipinto ironicamente come un sole che sorge e tramonta tutti i giorni, ma non vengono risparmiate frecciatine sarcastiche neppure agli intellettuali della sinistra, <<giovanotti sussiegosi, con la barba o senza la barba, con gli occhialini cerchiati d’oro o senza occhialini>>, sempre pronti al trasformismo e alla ricerca del potere, che guardavano <<con commiserazione chiunque non parlasse o ragionasse come loro, con le stesse frasi fatte e le stesse parole>>.

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La chimera

Sebastiano Vassalli
La chimera, Sebastiano Vassalli, ET Einaudi, 1992, 303 p.

Inauguro il nuovo blog con un autore genovese che mi piace molto per serietà e competenza, in particolare per la sua capacità di documentare nel dettaglio ciò che racconta senza per questo risultare noioso o pesante. La chimera è forse uno dei suoi romanzi storici più belli e conosciuti, probabilmente anche il più adatto per conoscere e apprezzare questo grande scrittore. Certamente non è una passeggiata, nel senso che l’abbondanza di citazioni e digressioni richiede comunque un certo impegno nella lettura, ma lo stile narrativo è così piacevole, avvolgente e scorrevole che ti ritrovi all’ultima pagina quasi senza accorgertene. Col desiderio, subito dopo, di leggere qualcos’altro di questo autore. Ma parliamo ora del libro in questione…

La storia di Antonia prende forma alla fine del XVI secolo, in quella famigerata epoca della caccia alle streghe definita da storici e antropologi come “la più profonda vergogna della civiltà occidentale”. Basandosi sui verbali del processo, Vassalli ha ricostruito la storia di una ragazza condannata al rogo con l’accusa di  stregoneria, una ragazza che in realtà aveva l’unica colpa di essere nata bella, vittima dell’invidia e dell’ignoranza della gente oltre che di un fanatismo religioso che ai quei tempi non aveva limiti. Siamo nell’Italia del 1590, quando la Santa Inquisizione era all’apice del suo potere e la caccia all’eretico era all’ordine del giorno. In realtà la Chiesa non era nuova a misfatti di questo genere, basta scartabellare gli archivi storici per rendersene conto: dalla strage calabrese dei Valdesi del 1561, con più di duemila persone trucidate perché colpevoli di seguire un credo diverso da quello imposto dalla Santa Sede, fino al massacro francese della Notte di San Bartolomeo, dove nel 1572 oltre diecimila ugonotti “protestanti” furono barbaramente uccisi da un’orda di devotissimi “cattolici”. Non bisogna poi dimenticare che la Chiesa perseguitò anche personaggi famosi dell’epoca, come ad esempio il filosofo Giordano Bruno, arso vivo all’inizio del 1600, e in seguito l’ancor più noto Galileo Galilei, costretto ad abiurare le sue teorie sul sistema eliocentrico per evitare la condanna a morte. Prima di entrare nel vivo del romanzo vorrei anche ricordare che la caccia alle streghe era stata aperta ufficialmente dal pontefice Innocenzo VIII, con una bolla promulgata nel 1484 per “punire, incarcerare e correggere” le persone infette dal crimine della  “perversione eretica”, e per svolgere con nuovo potere il ministero dell’Inquisizione. Il documento che giustificava tali azioni era il Malleus malificarum (1486), chiamato anche Il Martello delle streghe, una sorta di “manuale del perfetto inquisitore” compilato da due domenicani tedeschi, che elencava nel dettaglio tutte le modalità per riconoscere una strega e i sistemi  di tortura (inenarrabili) per indurla alla confessione. Sono gli anni più cruenti dell’Inquisizione, caratterizzati da manifestazioni di intolleranza religiosa e segnati da migliaia di condanne per eresia e stregoneria. L’antifemminismo religioso, influenzato da una profonda e atavica misoginia, impone di fuggire la donna bella e di carattere “arma del demonio, causa prima della nostra perdizione”; viene invece tollerata la donna moglie madre sottomessa e devota, che alleva i figli e assicura la progenie, la contadina operosa e instancabile, la suora rinchiusa tra le mura del convento.

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