Alle fronde dei salici – Salvatore Quasimodo

Negli anni più tragici della seconda guerra mondiale i poeti non avevano più voce, scrive in questa poesia Quasimodo. Avevano appeso le loro cetre alle fronde dei salici (alberi tradizionalmente associati al pianto e al dolore) ed erano rimasti muti, dolorosamente raccolti in una silenziosa protesta. Del resto, come avrebbero mai potuto cantare i loro versi con il piede straniero (i nazisti invasori) premuto sopra il cuore (l’amata patria occupata, violentata e oppressa)? Come sarebbe stato possibile trovare un minimo d’ispirazione, fosse anche una sola parola, di fronte ad eventi terribili quali il massacro delle fosse Ardeatine (Roma, 24 marzo 1944) e la strage di Marzabotto (29 settembre–5 ottobre 1944)? Quest’ultima tristemente ricordata anche come “marcia della morte”, perché aveva visto altre località emiliane passate in rassegna dalle truppe nazi-fasciste, con centinaia di uomini, donne, vecchi e bambini massacrati nelle piazze, nelle loro case o lungo le strade… Nessun partigiano tra le vittime della rappresaglia tedesca, solo povera gente terrorizzata.

Come si può leggere in questo articolo, «nel 1944 Quasimodo non riesce a produrre un solo verso, al pari di altri scrittori italiani che pur non partecipando attivamente alla lotta di liberazione, sono resi creativamente sterili dal dolore e dal lutto. Nei primi mesi del 1945 Quasimodo riprende la penna in mano e scrive la bellissima lirica Alle fronde dei Salici, in cui il poeta manifesta il travaglio interiore di uomo e di poeta. La poesia apre la raccolta poetica Giorno dopo giorno ed esprime l’impazienza verso i progressi dell’offensiva contro l’esercito tedesco. Ma esprime anche la gioia per la Liberazione che si concluderà qualche mese più tardi, il 25 aprile 1945. Una doppia liberazione per il poeta che non ha potuto scrivere per lungo tempo. Si può dunque considerare Alle fronde dei salici la poesia della Liberazione, che pone fine al silenzio in cui si erano relegati i poeti, inaugura la nuova poetica italiana e ridà voce al popolo».

E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
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La luna e i falò

La luna e i falò, C.Pavese, Einaudi, 2014, 170 p
La luna e i falò, C.Pavese, Einaudi, 2014, 170 p

Mentre si legge questo romanzo sembra quasi di ascoltare le storie di una volta, quelle sussurrate a voce bassa davanti a un caminetto acceso, dense di ricordi del passato, di nostalgiche malinconie. Ai tempi della scuola non lo avevo apprezzato, forse perché il ritorno del protagonista alle proprie origini, con quel suo continuo scrutare ogni cosa per vedere se fosse cambiata, mi indisponeva non poco, e forse anche perché molte pagine mi erano apparse lente e noiose. Rileggendolo invece negli ultimi tempi l’ho riscoperto poetico e piacevolissimo, sebbene la trama non sia proprio di quelle allegre. Probabilmente è uno di quei libri che si apprezzano maggiormente nell’età adulta o ad una seconda lettura. La cadenza narrativa è infatti molto lenta e a tratti monotona, anche perché non accade quasi nulla per tutta la durata del romanzo a parte negli ultimi capitoli, dove la descrizione di alcuni fatti tragici tende ad accentuarne il tono emotivo.

Forse la scarsa attrazione che avevo provato la prima volta nel seguire queste vicende dipende anche dal fatto che fin dall’infanzia sono stata sradicata dalle mie radici native e poi sono cresciuta senza l’interesse di recuperarle, anche a causa di ripetuti traslochi che ho dovuto affrontare con la mia famiglia. Mi sento infatti come una pianta che è stata più volte estirpata e ripiantata in altri terreni, ma alla quale il sole e la luce non sono comunque mancati. Non ho quindi maturato quel senso di rimpianto e attaccamento a un luogo che appare invece così evidente nel narratore-protagonista di questo romanzo, soprannominato Anguilla, che dopo aver vissuto per molti anni in America sente il desiderio impellente di ritornare nelle Langhe cuneesi, l’amata terra d’origine. Tale spinta proviene anche dal fatto che, dopo aver girato tanto il mondo, «uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che non un comune giro di stagione.»

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Verderame

Verderame, Michele Mari, Einaudi, 2007, 164 p.
Verderame, Michele Mari, Einaudi, 2007, 164 p.

Circa un anno fa ho scoperto questo autore e ne sono rimasta folgorata. Ammetto che devo approfondirlo, ma già con questo romanzo dalla trama così inusuale e dallo stile grammaticalmente perfetto è riuscito a includermi, almeno in parte, nella schiera dei suoi fan. Salvo magari cambiare idea quando leggerò qualcos’altro di suo, perché mi è già capitato con altri scrittori di passare dall’infatuazione più esaltante alla delusione più totale, quindi nell’attesa di un’altra occasione è meglio che mi astenga dalla tentazione di sfoderare eccessivi entusiasmi.
In ogni caso, devo comunque ammettere che sono rimasta da subito affascinata dal lessico curato e ricercato, dalla sintassi e punteggiatura pressoché perfette, che oltretutto non penalizzano il coinvolgimento emotivo del lettore; così come sono rimasta colpita dalla duplicità linguistica dell’opera, che alterna con sapienza e naturalezza l’italiano forbito al dialetto varesotto, riuscendo a farsi capire e piacere.

Quella di Michele Mari è una prosa raffinata e avvolgente, quasi d’altri tempi, che lascia intravedere qualche venatura in stile gaddiano e landolfiano, così come suggestioni tratte dalle opere di Poe e Stevenson; letture, queste, che del resto hanno sempre accompagnato l’autore nel corso degli anni, come ha detto più volte nelle interviste, e che quindi fanno parte del suo bagaglio culturale. Il mistero e il tema del doppio, infatti, costellano tutta la vicenda di questo strano romanzo, rendendone ogni prospettiva più incerta, ogni tappa raggiunta mai veramente definitiva, fino ad una conclusione sconcertante.
Sono rimasta ammaliata anche dal gioco combinatorio di citazioni, rimandi letterari e invenzioni concettuali, così come dalle tematiche tirate in causa: il passato personale e storico, il tempo e la memoria, il problema della doppia identità. Non di meno mi è piaciuta l’atmosfera in parte rurale e in parte gotica, che si arricchisce via via di risvolti misteriosi e inquietanti. Una combinazione di elementi quasi perfetta, dove solo la parte conclusiva lascia un po’ a desiderare. Ma sul finale posso anche sorvolare, visto che non andrebbe in ogni caso svelato. E comunque, a conti fatti, la sua ambiguità più che rovinare la suggestività della trama forse anzi la esalta.

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Gli occhiali d’oro

Gli occhiali d’oro, Giorgio Bassani, Mondadori Classici Moderni, 2009, 114 p.
Gli occhiali d’oro, Giorgio Bassani, Mondadori Classici Moderni, 2009, 114 p.

Non c’è nulla più dell’onesta pretesa di mantenere distinto nella propria vita ciò che è pubblico da ciò che è privato, che ecciti l’interesse indiscreto delle piccole società perbene.

Questo libro fa parte dell’imponente progetto “Il romanzo di Ferrara”, un ciclo di storie dedicate da Bassani alla sua città di adozione, che include anche Il giardino dei Finzi Contini, Dentro le mura, Dietro la porta, L’airone, L’odore del fieno. Sono romanzi e racconti destinati a conservare la memoria di un’epoca tormentata, quella che parte dal periodo antecedente la guerra e arriva fino agli anni Cinquanta, mettendone in risalto gli aspetti più statici, deleteri ed estranianti. Si tratta infatti di vicende, atmosfere e stati d’animo che offrono scarse possibilità di riscatto ai protagonisti delle stesse, anche perché lo scrittore aveva scelto di puntare lo sguardo soprattutto sull’individuo che soffre, che rimane da solo o che si sente diverso in mezzo agli altri, rassegnato di fronte all’evolversi di una politica sociale di carattere devastante, com’è stata ad esempio quella della dittatura fascista. L’unica arma che ci resta per ricordare quel periodo e non ricadere nell’errore, sembra voler dire Bassani, è “la memoria”, ossia la scrittura come rimedio contro l’oblio, e quindi una trama narrativa che, per quanto triste e ineluttabile, diventa testimonianza da consegnare alla storia.

Nel romanzo di cui parliamo oggi l’epoca è appunto quella dell’Italia fascista degli anni ’30, caratterizzata da un moralismo di facciata che nascondeva un’intolleranza sempre più incontenibile nei confronti di alcune categorie sociali, soprattutto ebrei e omosessuali. L’io narrante – che al tempo era un giovane studente ebreo, e nel quale Bassani mette molto di se stesso – ricorda quegli anni lontani descrivendo la graduale caduta del dottor Athos Fadigati, un uomo rispettabile e dignitoso ma “diverso”, che si ritrova progressivamente emarginato da un ambiente borghese aspro, cinico, riluttante nei confronti di qualsiasi anormalità. I suoi modi cortesi, la sua generosità con i pazienti, il luccichio dei suoi occhiali d’oro, i vestiti di lana inglese e persino la rassicurante pinguedine non bastano a frenare le maldicenze sul suo conto. Quando poi Fadigati viene avvistato, nel corso di un’estate, in inequivocabile compagnia di un ragazzo bello e spregiudicato, conosciuto da tutti per la vita sregolata, le insinuazioni sulle sue preferenze sessuali non trovano più freni. Dal quel momento tutto cambia nei confronti del dottore: quello che fino a poco prima era tacitamente tollerato, perché solo supposto o immaginato, diventa improvvisamente disgustoso perché manifesto. L’atmosfera velenosamente ipocrita – emblema di una società italiana che stava per vivere la vergogna delle leggi razziali fasciste – lacera senza pietà l’immagine professionale e umana di Fadigati, fino a ridurla a brandelli.

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Sulle colline liguri, dove i ragni fanno il nido

Il sentiero dei nidi di ragno, Italo Calvino, Oscar Mondadori, 2009, 159 p.
Il sentiero dei nidi di ragno, Italo Calvino, Oscar Mondadori, 2009, 159 p.

Nell’undicesimo capitolo del meta-romanzo “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, Calvino faceva dire al sesto lettore: << […] Il momento che più conta per me è quello che precede la lettura. Alle volte è il titolo che basta ad accendere in me il desiderio d’un libro che forse non esiste, alle volte è l’incipit del libro, le prime frasi… Insomma: se a voi basta poco per mettere in moto l’immaginazione, a me basta ancor meno: la promessa della lettura. >> A tal proposito devo confessarvi che il primo approccio con questo scrittore è nato proprio così, ossia dalla curiosità che mi destava il titolo del romanzo e non di meno dalla simpatia che ho sempre provato – e provo tuttora – per i ragnetti. Nel corso degli ultimi anni mi sono poi tuffata in molte altre pagine di Calvino, riemergendone ogni volta con un senso di appagamento per la singolarità e la qualità dei contenuti. Ho però capito a mie spese che bisogna diffidare dei libri troppo sbandierati, perché spesso capita di trovare sotto un titolo o una copertina accattivante il vuoto più siderale. Di incappare nell’errore succede anche a chi mastica letteratura da anni, soprattutto nei confronti di autori nuovi ed emergenti, a causa di certe recensioni che sono fuorvianti (oltre che interessate). Ma certamente non è il caso di questo bellissimo romanzo pubblicato nel lontano 1947, che viene inserito nel filone neorealista e che – come notò per primo Cesare Pavese – sottende anche una dimensione fiabesca, anticipando per certi versi quel tipico stile che caratterizzerà tutta la produzione successiva di Calvino.

La vicenda si svolge nelle valli e nei boschi delle Prealpi liguri ed è affrontata da una visuale non oggettiva, così come la vede e la interpreta il piccolo Pin, con le curiosità e gli stupori tipici dell’infanzia. Monello lentigginoso e irriverente, sempre sgridato e malmenato dagli adulti, Pin attraversa diverse peripezie per poi finire nel gruppo del Dritto, un pugno di partigiani scalcinati ed emarginati, rifiutati da tutte le altre divisioni, guidati da un comandante triste e malaticcio. Qui troviamo i personaggi più strambi, come Zena il Lungo detto Berretta-di-Legno, indolente e apatico, che approfitta di ogni momento per sdraiarsi nell’erba a leggere romanzi gialli, o il cuoco Mancino che gira sempre con un falchetto del malaugurio appoggiato sulla spalla, strillando motti di stampo marxista contro la borghesia e il capitalismo.

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