Il vecchio e il mare

È stato un bel viaggio, quello al fianco di Santiago. Anche disagevole, a dire il vero, come disagevole e altalenante (oltre che ricca di fascino) è la vita stessa, con tutto quel succedersi di alti e bassi, di conquiste e perdite, di esaltazioni e abbattimenti. Senza i quali non si riuscirebbe ad apprezzare fino in fondo il sapore della riuscita, nel momento in cui diventa finalmente una certezza. Senza i quali sarebbe forse anche impossibile accettare la sconfitta come occasione per riflettere, per guardarsi meglio dentro, facendo così dell’umiltà una virtù.

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Il vecchio e il mare, Ernest Hemingway, Mondadori, 2014, 125 p.

La trama di questo breve romanzo (o lungo racconto) è talmente nota che penso di non far torto a nessuno nel riportarla a grandi linee; in caso contrario, evitate di proseguire la lettura. Al centro della vicenda c’è quindi Santiago, un vecchio pescatore cubano la cui misera vita è rischiarata solo dall’affetto di un ragazzino, Monolito, a cui insegna i rudimenti della pesca. Sono però tre mesi che il vecchio rientra dai suoi viaggi per mare a mani vuote, come se fosse perseguitato dalla scalogna (considerato salao – ossia spacciato, finito – anche dalla gente del posto, che lo guarda con compatimento), per cui una mattina decide di riprendere il largo, questa volta senza il ragazzo, per sfidare di nuovo la sorte. All’inizio questa sembra sostenerlo, visto che abbocca all’amo un magnifico marlin di oltre cinque metri, il pesce più grosso che gli sia mai capitato di incontrare in tanti anni, e visto anche che riesce dopo lunghi e spossanti tentativi ad ucciderlo e legarlo alla sponda della barca. Ma nel momento in cui naviga sulla rotta del ritorno ecco rimpiombare la sfortuna sotto forma di ripetuti attacchi da parte di un branco di pescecani, che in breve tempo spolpano il grosso pesce lasciandone solo la carcassa, malgrado tutti gli sforzi del vecchio per colpirli e respingerli nel tentativo di difendere la sua conquista.

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Per chi suona la campana

Per chi suona la campana, Ernest Hemingway, Mondadori, 1996, 501 p.
Per chi suona la campana, Ernest Hemingway, Mondadori, 1996, 501 p.

Andavano tra l’erica del prato montano. Robert Jordan sentiva l’erica solleticargli le gambe, sentiva sulla coscia il peso della pistola nella fondina, sentiva il sole sulla testa, sentiva fredda sulla schiena la brezza delle vette nevose e nella mano sentiva la mano della ragazza, forte e ferma, le dita intrecciate alle sue. Da quella mano, da quella palma che riposava sulla propria, dalle dita insieme intrecciate e dai polsi incrociati, dalla mano di Maria, dalle sue dita, dal suo polso, gli veniva un che di fresco, come il primo soffio lieve del mattino che passando sul mare increspa appena la superficie vitrea e calma dell’acqua, lieve come una piuma che ti sfiora le labbra o come una foglia che si stacca e cade quando non soffia un alito; così lieve che egli lo sentiva solo col contatto delle loro dita, ma che si faceva così forte e veemente e urgente, così doloroso e impetuoso quando le dita si serravano e le palme e i polsi aderivano, che era come se una corrente gli percorresse il braccio riempiendogli tutto il corpo di uno svuotante, doloroso desiderio. Col sole che le brillava sui capelli color grano e sul bel viso dolce e liscio d’oro bruno e sulla curva del collo, egli le rovesciò indietro la testa e stringendola a sé la baciò. La sentì tremare mentre la baciava: se la premette tutta, forte, contro di sé e sentì attraverso le due camice cachi i seni di lei sul suo petto, sentì i piccoli seni duri, e allora le sbottonò la camicia e la baciò, e lei teneva la testa arrovesciata, stretta nelle sue braccia. (….) Ci fu poi per Maria l’odore dell’erica schiacciata e la ruvidezza degli steli piegati sotto la sua testa e il sole brillò sugli occhi chiusi. Per tutta la sua vita egli non potrà dimenticare la curva di quel collo, e la testa rovesciata tra le radici dell’erica, e le labbra che si muovono appena, e le ciglia palpitanti sugli occhi chiusi per scacciare il sole, e ogni cosa; per Maria tutto era rosso e arancione e d’oro per il sole sugli occhi chiusi, e tutto aveva il colore; tutto, il riempirsi, il possedere, il dare, tutto aveva quel colore stesso, in una cecità che era di quel colore. Per lui era una via oscura che non portava in nessun posto, e ancora in nessun posto, di nuovo in nessun posto, di nuovo ancora in nessun posto e sempre eternamente in nessun posto, coi gomiti duramente affondati nella terra, nel buio, senza fine verso nessun posto, sempre e continuamente sospeso verso l’ignoto nessun posto, ma per rinascere di nuovo e sempre in nessun posto, insopportabilmente ora, su, su, su e in nessun posto, e poi bruscamente, roventemente, tutto il “nessun posto” è svanito e il tempo assolutamente fermo e loro due lì, il tempo essendosi fermato: ed egli sentì la terra mancare sotto di sé e sprofondarsi.

Un crescendo di passione descritto in un simile modo, con quelle parole ripetute che rendono l’attimo ancora più intenso fino al culmine dell’estasi, non mi era mai capitato di leggerlo. Affermare che questo brano è meraviglioso, sarebbe dir poco. Ma questo non è un romanzo d’amore. Sì, c’è anche quello, che proprio in virtù del contesto difficile in cui si sviluppa acquista particolare risalto, ma non è un romanzo d’amore. È una vicenda di guerra, con aspetti anche crudi e brutali, che si rifà a un pezzo di Storia del secolo scorso, miscelando realtà e fantasia con consumata esperienza. Un romanzo di cinquecento pagine per descrivere una vicenda che si snoda in tre giorni. Ma in questo breve lasso di tempo l’autore è riuscito a condensare un intero conflitto, con tutto il dramma umano che ne consegue.
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Fuoco pallido – in lettura

Omaggio floreale di Nabokov per i prodi lettori di Fuoco pallido. Solo per chi l’ha letto fino all’ultima riga, senza imbrogliare le carte (Indice analitico e Note del curatore inclusi)
Omaggio floreale di Nabokov per i prodi lettori di Fuoco pallido. Solo per chi l’ha letto fino all’ultima riga, senza sgarrare (Indice analitico e Note del curatore inclusi)

Come si sarà capito dalla foto, in questo periodo sto leggendo, tra le altre cose, anche un romanzo di Nabokov che forse sarebbe meglio definire non-romanzo, o meglio ancora iper-romanzo: Fuoco pallido. Il mio primo Nabokov, lo confesso. Meglio tardi che mai. Probabilmente avrei fatto meglio a cominciare con Lolita, che da quanto si legge in giro sembra essere più indicato come approccio, ma come al solito ho l’abitudine di complicarmi l’esistenza. Questo infatti è un testo abbastanza complesso, con più livelli di lettura e di difficile impatto, che però – bisogna riconoscerlo – non pecca di inventiva e originalità. Lo stile descrittivo è ricercato, raffinato, dettagliatissimo (forse a volte anche troppo), a tratti così sublime da far girare la testa, mentre la trama è davvero singolare e audace, fuori da ogni schema.
Riassumendo al massimo, si tratta di un poema di novecentonovantanove versi, suddivisi in quattro canti, seguito da un lungo e articolato commento ai versi stessi. L’autore del poema è un tale John Shade, che l’ha scritto pochi mesi prima del suo decesso, mentre il commento è redatto da un certo professor Charles Kinbote, che si picca di essere stato amico del poeta e di essere l’unico in grado di interpretarne i versi. Il problema, però, è che li interpreta a sua scelta e piacere, cercando in ogni parola dei possibili riferimenti al mondo di Zembla (reale o immaginario?) e alle vicissitudini del suo sovrano esiliato, Charles il Beneamato (Kinbote stesso?), braccato da un sicario che ha l’incarico di liquidarlo.
La difficoltà sta nel fatto che il romanzo, così com’è stato strutturato, costringe chi lo legge a saltare continuamente avanti e indietro – dal poema al commento, dal commento al poema – nel tentativo di scovare dei nessi chiarificatori tra le due parti, che in realtà però non esistono. Così capita che ad un certo punto, snervati da tanta fatica improduttiva, si decida all’improvviso di esplorare solo la seconda parte del romanzo, quella del commento, prendendolo così com’è, come un fiume che scorre in piena, senza sentirsi troppo in colpa per il balzo trasgressivo. E allora a questo punto tutto cambia, e in men che non si dica ci si ritrova comodamente seduti in poltrona, con un bicchiere di scotch in mano, mentre dalla finestra si comincia a scorgere un panorama di rara bellezza, traboccante di ingegnosi sviluppi letterari, davanti al quale svaniscono, come neve al sole, anche le ultime resistenze.
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I racconti di Hemingway

Tutti i racconti, Ernest Hemingway, Mondadori, 1990, 986 p.
Tutti i racconti, Ernest Hemingway, Mondadori, 1990, 986 p.

Nell’analisi di questo libro procederò a random, anche perché le suggestioni sorte durante la lettura sono state così tante che è impossibile riuscire ad inglobarle in uno schema ordinato e preciso. Desidero anche avvertirvi che su qualche racconto potrebbero esserci delle anticipazioni, anche se in genere sto sempre attenta a non rivelare troppo.
L’edizione che ho letto è quella della collana I Meridiani di Mondadori (I edizione, ottobre 1990), che include non soltanto i quarantanove racconti della famosa raccolta, tradotti magistralmente da Vincenzo Mantovani, ma anche racconti postumi e brani incompiuti, il tutto curato da Fernanda Pivano, che apre il libro con una lunga e bella Introduzione.

Innanzitutto vorrei parlare della scrittura di Hemingway, che ha qualcosa di semplice e affascinante nello stesso tempo. La sua è una prosa scarna e asciutta, essenziale, priva di fronzoli, che si pone il più possibile vicino alla realtà immediata del personaggio. Non per nulla il motto principale di questo grande scrittore era quello di «scrivere cose semplici in modo semplice» e di «scrivere solo di cose conosciute bene», come aveva appreso dal mestiere di giornalista che aveva praticato per molti anni. Da qui nasce quel suo tipico modo di rendere cose, fatti e persone in modo oggettivo, usando frasi brevi ed evitando aggettivi inutili. «Niente grasso, niente aggettivi, niente avverbi. Solo sangue, ossa e muscoli. Guarda, è splendido. È un nuovo linguaggio», spiegava Hemingway ad un collega del Kansas City Star, per fargli capire le sue idee innovative in fatto di scrittura. E in una lettera al padre, datata marzo 1925, scriveva: «In tutti i miei racconti cerco di cogliere la sensazione della vita vera – non soltanto di descrivere la vita – o di criticarla – ma di renderla veramente viva… Sicché quando vedi qualcosa di mio che non ti piace ricordati che sono sincero nel farlo e che lavoro con uno scopo preciso». Da ciò si deduce che lo scrittore era anche convinto che quanto più si poteva imparare dall’esperienza diretta, tanto più si poteva poi immaginare una storia in modo veramente realistico. Per lui immaginazione e realtà non potevano prescindere l’una dall’altra. Come spiega Fernanda Pivano nell’Introduzione, Hemingway traduceva in scrittura le esperienze che aveva personalmente vissuto, come ad esempio la pesca alle trote nel Michigan, che gli ispirò il racconto Grande fiume dai due cuori (uno dei miei preferiti, di cui parlerò in seguito), o come l’episodio di seduzione a cui una notte assisté per caso, che lo spinse poi a scrivere il celebre e controverso Su nel Michigan, che a quei tempi fece grande scalpore.

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Ernest Hemingway – un estratto

A meno di trenta metri, in mezzo all’erba, il grosso leone si teneva appiattito contro il suolo. Aveva le orecchie abbassate e il suo unico movimento era un leggero fremito, su e giù, della lunga coda col ciuffo nero. Si era messo sul chi vive appena aveva raggiunto questo nascondiglio e soffriva per la ferita nella pancia, che era piena, e continuava a indebolirsi per quella ai polmoni, che gli faceva salire alla bocca una rada schiuma rossa ogni volta che respirava. I suoi fianchi erano umidi e caldi e le mosche si posavano sulle piccole aperture che i proiettili avevano praticato nella sua pelle fulva, e i suoi occhioni gialli, trasformati in due fessure dall’odio, guardavano diritto davanti a loro, chiudendosi solo quando, col respiro, veniva anche il dolore, e i suoi artigli erano piantati nella terra soffice cotta dal sole. Tutto in lui, dolore, nausea, odio e ogni forza residua, confluiva nell’assoluta concentrazione indispensabile per un attacco. Il leone sentiva gli uomini parlare e aspettava, raccogliendosi tutto in questa preparazione dell’attacco che avrebbe scatenato appena gli uomini fossero entrati nella radura. Quando sentì le voci la sua coda s’irrigidì, muovendosi su e giù, e quando gli uomini misero piede tra l’erba il leone mandò un grugnito cavernoso e attaccò.

(La breve vita felice di Francis Macomber, pag.23-24 – Tutti i racconti, I Meridiani, Mondadori, 1990)