L’arte di sorridere alla vita

ibrahim
Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano, Eric-Emmanuel Schmitt, e/o, 2009, 108 p.

“Perché non sorridi mai, Momo?” mi domandò monsieur Ibrahim.
La domanda era come un cazzotto, un vero e proprio cazzotto al fegato, non c’ero preparato.
“Sorridere è roba da gente ricca, monsieur Ibrahim. Io non ho i mezzi”
Naturalmente lui cominciò a sorridermi, tanto per farmi girare le scatole.
“Perché, tu credi che io sia ricco?”
“Beh, la sua cassa è sempre strapiena. Non conosco nessuno che per tutto il giorno abbia così tanti soldi sotto gli occhi”
“Ma i soldi mi servono per pagare la merce e il locale. E alla fine del mese non mi resta molto, sai”.
E sorrideva sempre di più, come per prendermi in giro.
“Monsieur Ibrahim, quando dico che il sorriso è roba da ricchi, intendo dire che è roba per gente felice”.
“Ecco, è qui che ti sbagli. E il sorridere che rende felici”.

L’arte di sorridere alla vita: è questo che il vecchio Ibrahim, un turco musulmano non ortodosso della corrente sufita, cerca di insegnare al giovane ebreo Mosè, che ha soprannominato Momo. Entrambi vivono in un quartiere parigino degli anni Sessanta, dove Monsieur Ibrahim gestisce una drogheria mentre Mosè, in piena fase di fermenti adolescenziali, si dedica a piccoli furti proprio nel negozio del vecchio turco, nella speranza di racimolare qualche soldo per frequentare la casa d’appuntamenti di rue de Paradis. Ma il signor Ibrahim, uomo saggio e conciliante, pur accorgendosi della cosa non sembra intenzionato a cogliere in fallo il ragazzo, né tantomeno a redarguirlo, perché ciò che gli sta veramente a cuore è insegnarli, con l’aiuto di alcuni versi tratti dal Corano, quanto sia bella la vita al di là delle tragedie che ci toccano e coinvolgono, e quanto sia importante apprezzare ogni giorno le piccole cose che ci circondano. L’importante è appunto sorridere alla vita, sorridere a tutti, sorridere sempre, e il ragazzo decide di provarci con diverse persone ottenendo dei risultati inaspettati e strepitosi, anche se c’è qualcuno che sembra essere insensibile al magnetismo di quest’arma così potente…

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Il bambino di Noè

Il bambino di Noè, Eric-Emmanuel Schmitt, Rizzoli, 2004, 124 p.
Il bambino di Noè, Eric-Emmanuel Schmitt, Rizzoli, 2004, 124 p.

Filosofo, drammaturgo e scrittore, Eric Emmanuel Schmitt è tra gli autori francesi più affermati degli ultimi tempi. In Italia è conosciuto soprattutto per il libro ‘Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano’, da cui è stato tratto un film con Omar Sharif nel ruolo del protagonista. Schmitt ha però scritto molte novelle e romanzi di successo, di cui mi limito a citare Odette Toulemonde, Piccoli crimini coniugali, La sognatrice di Ostenda, La mia storia con Mozart. Un accenno lo merita anche il fantastorico “La parte dell’altro”, dove l’autore si è divertito a rielaborare l’immagine e la personalità di Hitler sulla base di un percorso esistenziale alternativo, completamente diverso da quello che è passato alla Storia. Una trama inusuale e a suo modo anche bizzarra, che però fa riflettere.

Ma ora vorrei soffermarmi su questo racconto tanto breve quanto intenso, capace di far vibrare le corde più profonde del cuore. Ambientato nel Belgio occupato dai nazisti durante la seconda guerra mondiale, narra delle vicissitudini di un ragazzino ebreo, un certo Joseph Bernstein, che dopo essere scampato per miracolo alle deportazioni trova rifugio nel collegio gestito da Padre Pons. Quest’ultimo è un personaggio veramente singolare, perché non si limita a salvaguardare le vite umane degli ebrei ma si preoccupa anche di preservarne il retaggio storico e culturale, elevandosi al di sopra delle ataviche divergenze che hanno sempre contrapposto il cristianesimo all’ebraismo. Padre Pons infatti, pur essendo cattolico, custodisce nella cappella sotterranea della chiesa una “collezione” di libri e oggetti sacri di tradizione ebraica, alla maniera di un resuscitato Noè che tenta di proteggere dal “diluvio nazista” non solo i bambini ebrei – come appunto Joseph – ma anche le loro origini, le loro personali credenze, in altre parole la loro “identità”. La figura di questo Padre e la cripta segreta richiamano quindi alla mente le mitiche figure di Noè e l’Arca, destinate a salvaguardare un mondo in dissoluzione attraverso lo straordinario potere della conservazione. E infatti il ragazzino scoprirà, raccogliendo e perpetuando nel tempo il lascito di tale missione, che non è la prima volta che il sacerdote salva e custodisce tutto ciò che gli uomini tentano di distruggere e di far dimenticare.
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Il Vangelo secondo Pilato

Il Vangelo secondo Pilato, Eric-Emmanuel Schmitt, San Paolo Edizioni, 2010, 296 p
Il Vangelo secondo Pilato, Eric Emmanuel Schmitt, San Paolo Edizioni, 2010, 296 p

Negli anni passati diversi scrittori si sono cimentati con la figura di Gesù di Nazaret, come ad esempio Giuseppe Berto (La gloria) e José Saramago (Il Vangelo secondo Gesù Cristo), solo per citarne alcuni. E anche se spesso sono stati accusati di approssimazione, di distorsione dei fatti storici o addirittura di blasfemia, credo non si possa negar loro il merito di averci offerto un Messia più autentico e umano, caratterizzato da qualche piccola debolezza che commuove e che ce lo fa sentire ancora più vicino. In fondo la loro è una personale rivisitazione del Cristo e delle sue opere, ogni volta luminosa e toccante, in nessun caso offensiva o triviale. Personalmente non ho quindi trovato indecoroso neppure questo libro di Schmitt, che al contrario è riuscito a coinvolgermi fornendomi interessanti spunti di riflessione.

Nella parte iniziale del romanzo l’autore ci introduce nell’orto del Getsemani, dove un Gesù in raccoglimento ripercorre col pensiero gli eventi più significativi della sua vita. Da questo suo lungo monologo interiore traspare la consapevolezza dell’imminente arresto, ma anche qualche fremito di dubbio sulla propria natura divina:

Questa sera, la morte mi attende in questo giardino. Gli ulivi sono diventati grigi come la terra. I grilli fanno l’amore sotto lo sguardo benevolo di una luna ruffiana. Vorrei essere uno di quei due cedri blu, i cui rami servono da asilo notturno a nugoli di colombe e ospitano nella loro ombra diurna piccoli mercati chiassosi. Come loro vorrei mettere radici, senza preoccupazioni, e dispensare felicità. Invece non ho fatto che seminare granelli che non vedrò né germogliare né sbocciare. Resto in attesa della corte che verrà ad arrestarmi. Padre mio, dammi forza in questo frutteto indifferente alla mia angoscia, dammi il coraggio di andare fino in fondo a quello che, per follia, ho creduto essere il mio compito…

Un Messia quindi umanizzato, dubbioso della propria opera, che affronta con turbamento la rivelazione di sé a sé stesso, e che forse proprio per questo diventa agli occhi di noi lettori più vero e credibile. Ma se da un lato Gesù diffida di sé stesso ed è preoccupato per l’incombente martirio, dall’altro si dimostra sempre più convinto nel portare avanti la missione accettandone ogni conseguenza.

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