Sunset Limited

Sunset Limited, Cormac McCarthy, Einaudi, 2010, 115 p.

BIANCO: Be’, io non l’ho vista.
NERO: Ero lì fermo al binario. Pensavo ai fatti miei. Ed ecco che arrivi tu. A tutta birra.
BIANCO: Mi ero guardato attorno per essere sicuro che non ci fosse nessuno. Soprattutto bambini. E non c’era anima viva in giro.
NERO: No. Soltanto io
BIANCO: Be’, non so davvero dove potesse essere.
NERO: Mm. Ha proprio deciso di darmi il tormento con questa storia, eh, professore? Magari ero dietro un palo o che ne so.
BIANCO: non c’era nessun palo.
NERO: Allora che mi vuoi dire? Pensi che un angelone nero grande e grosso sia stato mandato giù dal cielo per acchiappare il tuo bel culetto bianco all’ultimo secondo e salvarti da una brutta fine?

Il dialogo si svolge nella cucina di una casa popolare, in un quartiere nero di New York. Intorno a un tavolo sul quale è appoggiata una Bibbia stanno seduti due uomini, uno di fronte all’altro. Un bianco di mezza età e un nero corpulento. Fino a qualche ora fa, prima che il nero strappasse il bianco alle rotaie del Sunset Limited sotto cui stava per lanciarsi, ancora non si conoscevano. Ma quello era solo l’inizio, ora i due devono andare oltre. E così parlano, «da prospettive, lingue e colori antitetici, fra picchi di comicità e abissi di disperazione senza contatto possibile oltre all’ingegno folgorante della penna che li ha partoriti».
Questo è quanto più o meno scritto sul retro della copertina, a cui resta ben poco da aggiungere in realtà. Anche perché si tratta di una pièce teatrale che per essere apprezzata al meglio andrebbe letta di persona, dalla prima all’ultima riga. Ma anche se il tentativo di spiegarla mi appare abbastanza riduttivo e passibile di fraintendimenti, proverò comunque a darvene un’idea il più chiara possibile, magari con l’aiuto di qualche estratto.

Iniziamo intanto col dire che quello messo in scena da McCarthy è un dibattito sul senso dell’esistenza che, passando da momenti calmi ad altri più concitati, con intermezzi a volte anche ironici, procede su due linee parallele destinate a non convergere mai.
Da una parte c’è il Bianco, l’aspirante suicida, un uomo ormai disilluso dalla vita e dal mondo, un intellettuale cinico e refrattario a qualsiasi ipotesi consolatoria, mentre dall’altra c’è il Nero, un avanzo di galera illuminato dalla fede e ormai devoto alla Bibbia, che avendo salvato la pelle al primo si sente adesso in dovere di convertirlo, di restituirlo fiducioso alla vita. Il Bianco però è un caso difficile, un osso duro. Vede nel declino del mondo l’evidente sconfitta dei propri ideali. Non crede più in una serie di cose in cui credeva una volta, “cose culturali” (così le chiama, riferendosi a libri, musica, arte) che dovrebbero stare alla base della civiltà e che nella società di oggi, a suo parere, non contano più.

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Notturni, Kazuo Ishiguro

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Notturni, Kazuo Ishiguro, Einaudi, 2009, pp. 192

E’ il mio primo incontro con lo scrittore anglo-giapponese. Mi è piaciuto? Non posso dirlo con estrema certezza, anche perché non basta leggere qualche racconto (nella fattispecie soltanto cinque) per arrivare subito ad una conclusione. Posso comunque affermare di averlo trovato interessante, in particolare per due aspetti. Innanzitutto per la scrittura nitida e scorrevole, capace di evocare suggestioni e di fare rimandi senza per questo apparire dispersiva o noiosa. Poi per la scelta originale di utilizzare la musica come filo conduttore delle storie; musica rappresentata di volta in volta dagli stessi personaggi, che rivestono per l’occasione i panni di cantanti, saxofonisti, violoncellisti e via dicendo, oppure citata attraverso i brani di famosi artisti del passato.
Nel primo racconto, giusto per rendere l’idea, l’io narrante è un chitarrista che suona nelle orchestrine di piazza San Marco, e la musica fin da subito evocata è quella di Diango Reinhardt e Joe Pass. E dopo qualche pagina, quando il giovane musicista accetta di affiancare un cantante americano nel corso di una serenata, sono le canzoni della vecchia Broadway, quelle cantante ai tempi d’oro da Chet Baker e Frank Sinatra, che si levano nell’aria tra i canali veneziani.
La scelta della musica come tematica di fondo nasce da un’antica passione di Ishiguro, che infatti fin da ragazzo si cimentava con la chitarra e il pianoforte sognando di diventare un cantautore, alla maniera di Bob Dylan o Leonard Cohen. Forse è una fortuna (per lui, ma anche per i numerosi fan) che abbia dirottato sulla narrativa, visto il successo riscosso negli ultimi anni. La musica gli è comunque rimasta così radicata nel DNA da costituire ancora oggi fonte d’ispirazione. Come ha spiegato lui stesso in un’intervista rilasciata a Repubblica, l’idea per queste short-stories cominciò a prendere forma dopo aver composto dei brani per musica jazz, che gli erano stati commissionati dalla cantante americana Stacey Kent: «… lo stile è lo stesso, come confluito da un territorio all’ altro: leggerezza, parsimonia di parole, significato che si cela tra le righe, bando all’ autobiografia e alla prosa ricercata. Nelle canzoni si lavora in sottrazione, delegando alla musica gli aspetti emozionali. Così nel flusso dei racconti, dove il significato respira tra le righe».

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Marco e Mattio

Marco e Mattio, Sebastiano Vassalli, ET Einaudi, 1994, 315 p.
Marco e Mattio, Sebastiano Vassalli, ET Einaudi, 1994

Questa è una storia che per molti aspetti colpisce e impressiona, difficile dimenticarsela. Una storia che parla di miseria, di fame, di pazzia, di follia redentrice, il tutto sullo sfondo di grossi cambiamenti epocali. Anche in questo caso, com’era accaduto nel romanzo La chimera, la trama si modella sulla base di un’accurata ricerca documentaria che in alcune parti si avvale dell’invenzione. I riflettori sono puntati non sui grandi personaggi storici, che pur essendo presenti rimangono sullo sfondo del romanzo, ma sulla gente umile e povera, che rappresenta da sempre la categoria più vessata del tessuto sociale. Vassalli tendeva infatti a prediligere le vicende dei singoli che si incrociano con la Grande Storia, le storie di uomini e donne spesso sconosciuti o quasi del tutto ignoti, che spesso e volentieri ripescava dal buio dell’oblio con tutto il loro carico di esperienza vissuta e patita. Era quindi un narratore di storie più che un romanziere nel senso classico del termine, ma in fondo raccontare – come ha scritto Paolo Mauri nel retro copertina – è pur sempre salvare, raccontare è anche un’opera di perplessa pietas verso vite altrimenti estinte per sempre.

Il periodo storico tracciato nel romanzo è quello a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento, che vide la fine della Repubblica di San Marco (le cui classi nobiliari opprimevano da decenni le campagne venete con pesanti dazi) per opera delle truppe napoleoniche francesi, le quali al posto della libertà promessa si dedicarono a soprusi e saccheggi, per poi cedere da lì a poco il Veneto all’Impero Austriaco, che tolto un breve periodo ci spadroneggiò fino all’unità d’Italia, imponendo nuove e pesanti tasse alla popolazione locale. Erano quindi anni turbolenti per l’Italia, segnati dall’alternanza di continui domini stranieri e da tentativi di sommosse contadine soffocate subito nel sangue. Famosa ad esempio quella capeggiata dal brigante Desiderio Manfroi, detto l’Userta, che cercò di ribellarsi ai soprusi dell’aristocrazia bellunese, di volta in volta compromessa con il dominatore straniero di turno, forse più con l’intenzione di trafugare per sé dei beni preziosi che non per vero amor di patria, come suppone anche Vassalli nel libro. Il quadro che il romanzo dipinge di questo periodo storico è comunque sconsolante, perché alla fine chi ci riemetteva era sempre la classe rurale, che restava povera, cenciosa e affamata, mentre i ceti aristocratici trovavano sempre il modo, grazie ad un’alleanza o all’altra, di preservare vecchi e nuovi privilegi.

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Tre giorni e un bambino

Immaginate di essere un uomo. Per chi già lo fosse l’identificazione è ovviamente scontata, direi forse immediata, quindi è soprattutto alle donne che mi rivolgo, esortandole a calarsi per un attimo dentro dei panni maschili. Siete quindi un uomo, un giovane uomo, uno studente universitario prossimo alla tesi. Nel passato avete amato molto una donna, in modo duro, sofferto, perdente fin dall’inizio. Probabilmente l’amate ancora, anche se tutto è finito da qualche anno. Ed ecco che un giorno all’improvviso lei si rifà viva, tramite una lettera, solo per chiedervi un favore. Un favore tanto semplice quanto inaspettato, sorprendente. Che è quello di tenerle per tre giorni il figlioletto, giusto il tempo per smaltire uno studio intensivo nelle biblioteche della zona insieme al marito, in vista di alcuni esami urgenti che devono entrambi sostenere per accedere all’università. Il problema è che provengono da una località distante, per cui non conoscono nessuno in città a cui affidarlo. A parte voi. Che, seppure frastornati dall’inaspettata richiesta, cedete quasi subito, date il vostro consenso senza quasi rendervene conto. Perché dentro, nelle pieghe più nascoste dell’animo, ne siete ancora innamorati di quella donna.
Ma non avete fatto bene i conti con le vostre emozioni, con la capacità di affrontarle e gestirle. Perché quando il padre vi porta a casa il bambino, quello che vi si para davanti è il ritratto di lei, della donna che avete tanto amato e cercato inutilmente di dimenticare: lo stesso taglio del viso, la stessa bocca screpolata, sempre assetata, gli stessi occhi verdolino sognante… Vi sentite invasi da una gioia incontenibile. Ma nello stesso tempo anche da un fastidio insopportabile. Anche perché vi rendete conto che questa donna dev’essere proprio distratta, immersa con la testa tra le nuvole, se non addirittura insensibile, per affidarvi un marmocchio di tre anni che è praticamente il suo ritratto, come se i sentimenti che avete sofferto per lei nel passato non contassero proprio nulla. Amore e odio si rinfocolano quindi nel vostro cuore e iniziano a tormentarvi, gradualmente e senza sosta.

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Se questo è un uomo

Se questo è un uomo – La tregua, Primo Levi, Einaudi, 1989, pp.362

«Ogni uomo civile è tenuto a sapere che Auschwitz è esistito, e che cosa vi è stato perpetrato: se comprendere è impossibile, conoscere è necessario».

Questa volta scriverò un po’ di pancia, evitando di soffermarmi  su dettagli storici, nomi, date… Tutti ormai sappiamo come si sono svolti i fatti nel corso del secondo conflitto mondiale, di come ha manovrato e agito la macchina del nazismo in ogni settore, e comunque sono notizie reperibili ovunque. Quella che invece mi preme trasmettere è l’emozione assorbita durante la lettura di questa drammatica testimonianza, e le relative riflessioni che ne sono derivate. Non parlerò quindi neppure dei motivi per cui questo libro è considerato oggi un classico, né degli episodi e delle varie citazioni che lo ricollegano alla Commedia di Dante, anche se non potrò fare a meno di utilizzare con una certa insistenza la metafora lager-inferno. Le indagini poetiche, letterarie e formali le lascio ad altri recensori, quelli che se la cavano meglio di me in termini di accuratezza. Farò solo una breve introduzione, poi tutto il resto lo lascerò scorrere come viene. Confido quindi nell’indulgenza di chi si appresta a leggermi, e mi scuso fin da adesso per la carenza di una certa schematicità.

Iniziamo col dire che Primo Levi fu catturato nel dicembre del ’43 e deportato, a distanza di circa un mese, nel campo di lavoro di Monowitz, in Polonia, che faceva parte del complesso concentrazionario di Auschwitz. Nei pressi del lager c’era la Buna-Werke, di proprietà della I.G. Farben, un impianto chimico per la produzione di gomma sintetica che utilizzava i prigionieri come manodopera, o meglio come schiavi-lavoro, rimpiazzandoli con altri detenuti ogni volta che morivano stremati dagli stenti. Levi ebbe la fortuna, se così si può chiamare, di essere a un certo punto selezionato per lavorare nel laboratorio della Buna, grazie alla sua laurea in chimica, e questo gli permise di evitare ulteriori fatiche nell’ultimo periodo di prigionia. Nel laboratorio poteva infatti svolgere delle mansioni meno disagevoli e riuscire a contrabbandare del materiale con cui effettuare transizioni per ottenere cibo. La stessa fortuna lo sostenne anche nel gennaio del 1945, quando ormai i russi stavano avanzando costringendo i tedeschi alla ritirata, visto che si ammalò di scarlattina e fu quindi abbandonato dagli aguzzini nell’infermeria del campo, insieme ad altri malati, evitando in questo modo quella lunga marcia di evacuazione da Auschwitz (poi definita Marcia della Morte) che fu letale per migliaia di altri detenuti, che crollavano a terra fucilati o congelati. Il viaggio di ritorno di Levi in Italia, lungo e travagliato, attraverso mezza Europa devastata, ci è stato poi descritto nel romanzo La tregua, altrettanto interessante da leggere per capire le ulteriori evoluzioni di questa sua difficile esperienza.

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Il senso di una fine

Il senso di una fine, Julian Barnes, Einaudi, 2012, 160 pp.
Il senso di una fine, Julian Barnes, Einaudi, 2012

Arrivo forse ultima a dire la mia opinione su un successo editoriale che negli ultimi tempi ha riscosso tanti elogi ma anche giudizi contrastanti da ogni angolo del web. Il fatto è che quando di un libro se ne parla troppo vengo di solito colta da una sorta di allergia, per cui devo attendere che le acque si siano calmate prima di trovare la voglia di leggerlo. Non ci posso fare niente, è più forte di me: l’eccesso di esultanza o denigrazione, peggio ancora se accompagnato da un battage pubblicitario che ne cavalca l’onda, mi porta purtroppo a diffidare dell’effettiva qualità dell’opera, soprattutto se è di un autore che si è affermato negli ultimi anni, per cui ne rimando nel tempo l’assaggio per poi magari accorgermi che ho fatto male.
A Barnes mi avvicinai per la prima volta alcuni mesi fa, quasi in punta di piedi, prelevando dagli scaffali delle biblioteca una delle sue opere meno famose e acclamate (Livelli di vita), forse per non tradire quella riluttanza che ho appena descritto, e mai scelta fu comunque più felice visto che il libro in questione mi conquistò parecchio per i contenuti emotivi e l’originalità della trama. Purtroppo non posso dire la stessa cosa di questo secondo romanzo, visto che il coinvolgimento non è stato altrettanto forte. Intendiamoci, anche “Il senso di una fine” è un’opera scritta bene, anzi, scritta divinamente, ma purtroppo non è scattato quel quid che di solito mi rapisce in modo intenso e viscerale durante la lettura, e credo che questo dipenda dal fatto che ho amato troppo l’altro libro, il primo che ho letto, e che quindi mi aspettavo qualcosa che fosse alla stessa altezza se non addirittura di più. Se avessi letto per primo questo, forse l’impatto sarebbe stato un po’ diverso. In ogni caso la scrittura di Barnes è come sempre incantevole, ricca di citazioni colte e raffinate, studiata attentamente nella forma e nello stesso tempo miracolosamente scorrevole. E poi questo romanzo – ritengo sia giusto dirlo, anche se non sempre fa la differenza – ha vinto nel 2011 il Man Booker Prize, uno dei più importanti premi letterari inglesi.

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Livelli di vita

Livelli di vita, Julian Barnes, Einaudi, 2013, 118 p.
Livelli di vita, Julian Barnes, Einaudi, 2013

Un libro bello, veramente bello. Strutturato in modo insolito e originale. Non si potrebbe neppure definire un romanzo, visto che mescola degli eventi storici, in parte abbelliti dalla fantasia, con esperienze e riflessioni di carattere personale sul tema del lutto, della perdita della persona amata, al punto che all’inizio si presenta come un saggio e alla fine diventa un memoriale. Anzi, per essere più precisi è una mescolanza tra saggio, racconto inventato e memoria autobiografica, con fatti e circostanze che si snodano in tre capitoli in apparenza scollegati che in realtà vanno a formare un discorso unico.
Il libro segue infatti un movimento ben preciso, che partendo dalla conquista esaltante del cielo da parte dei primi pionieri dell’aria (Il peccato dell’altezza) si conclude con uno schianto doloroso al suolo (Perdita di profondità), non senza aver prima attraversato una fase intermedia (Con i piedi per terra), dove le illusioni fanno i conti con la realtà nell’attesa della botta conclusiva.

All’inizio, aspettandosi un racconto, si rimane un po’ perplessi nel leggere la cronistoria delle imprese aeronautiche finanziate dal governo britannico sul finire del XIX secolo, dove tra i pionieri dell’aria più famosi spicca la figura di Félix Tournachon, meglio conosciuto come Nadar, che fu anche fotografo, giornalista, caricaturista, oltre che inventore e depositario di svariati brevetti. Questo poliedrico personaggio passò anche alla storia per aver costruito Le Géant, uno dei palloni ad aria calda più giganteschi del mondo, che però non ebbe un esordio tanto felice, visto che precipitò al secondo decollo lasciando miracolosamente incolume l’equipaggio. La cosa divertente, se vogliamo, è che la notizia dell’impresa ispirò a Jules Verne il romanzo “Cinque settimane in pallone” (1863), mentre lo stesso Nadar, per nulla intimorito dall’imprevisto, aggiustò l’aerostato per rituffarsi senza indugi nel piacere del volo.
L’obiettivo dell’autore si sposta poi su Fred Burnaby, un colonello della Guardia Reale inglese appassionato di viaggi ed esplorazioni, a cui fa vivere una fantasiosa e improbabile relazione con l’attrice Sarah Bernhardt, attratta allo stesso modo dall’ebbrezza dell’altitudine, anche perché rispecchiava la sua visione libera ed emancipata della vita. Tre personaggi del passato accomunati dunque dal desiderio di librarsi nel cielo, di innalzarsi a bordo di una cesta appesa a un pallone per affidarsi a un equilibrio precario di pesi e correnti; una condizione, questa, che ben rappresenta in senso metaforico quella dose di imprevedibilità che sta sempre alla base di ogni storia d’amore. Ed è qui infatti che il discorso si fa interessante, perché il volo aerostatico, di cui si parla con dovizie di dettagli storici e aneddotici nella prima parte, si rivela ben presto un pretesto per parlare dell’amore, che allo stesso modo di una mongolfiera può elevare le persone ad altezze vertiginose, sempre però con il rischio di farle anche precipitare.

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Delitto e castigo

Delitto e castigo, Fëdor Dostoevskij, Einaudi, 2012, 654 p.
Delitto e castigo, Fëdor Dostoevskij, Einaudi, 2012, 654 p.

Al pensiero di scrivere qualcosa su questo grande classico della letteratura mondiale mi tremano un po’ le mani. La sensazione che provo è come quella di girare attorno ad una boccia di cristallo senza saper bene in quale punto fermarmi per osservarla meglio, tanto ricco e complesso è il contenuto che mi traspare dai suoi riflessi. Tutta la gamma dei nostri difetti umani è infatti racchiusa nelle pagine di questo poderoso romanzo, inclusi gli autoinganni, i rimorsi e i sensi di colpa con cui siamo soliti complicarci l’esistenza. Non per niente Dostoevskij è stato definito più volte un abile scrutatore dell’animo umano, un esploratore ante litteram di quel famoso sottosuolo (l’inconscio) che poi la psicoanalisi freudiana, a distanza di pochi anni dalla sua morte, ha saputo descrivere così bene al mondo. Molti hanno già parlato di quest’opera in lungo e in largo, sviscerandone fino all’osso termini e significati. Anche il web abbonda di riassunti dettagliati della stessa, spesso estesi per ogni capitolo del libro. Non intendo ovviamente seguire questa strada, per cui mi limiterò a tracciare a grandi linee gli eventi base per poi indugiare un po’ più a lungo sulle parti che mi hanno maggiormente coinvolta. Senza peraltro farmi il problema di rivelare fatti, dettagli e circostanze, visto che ormai sono universalmente noti. Se qualcuno però non vuole saperne di anticipazioni, sappia fin d’ora che parlerò non solo del fatto delittuoso che fa da fulcro all’intera vicenda, ma anche delle sue motivazioni e conseguenze.
Avendo letto a ruota, subito dopo il romanzo, il bellissimo saggio elaborato da Pietro Citati incluso nel libro Il male assoluto (Adelphi edizioni, 2013), che vi consiglio caldamente di leggere, ho deciso di integrare ogni tanto nella mia analisi il pensiero illuminato di questo grande studioso. Citati ha centrato così bene i motivi biografici e psicologici che stanno alla base di quest’opera dostoevskiana, che per rendergli veramente onore dovrei fare una recensione della sua recensione. Ma rischierei di dilungarmi troppo, quindi mi limiterò solo ad esprimere, nel modo più chiaro possibile, le sensazioni che ho personalmente inglobato durante la lettura, con qualche occasionale riferimento alle sue stimolanti interpretazioni.
Prima di entrare nel vivo del romanzo, forse conviene fermarsi un attimo a riflettere sul titolo dello stesso. Eh sì, perché quello originario sarebbe “Il delitto e la pena”, non “Delitto e castigo”, e tale differenza non è da poco visto che il primo titolo contiene già in sé il significato essenziale dell’opera. Perché in queste pagine, più che di castigo, si parla proprio del tormento continuo e pressoché infinito che vive il protagonista dentro di sé dopo aver commesso un terribile omicidio. Attenzione: ho scritto “tormento”, non rimorso. Ed è questa la parte più agghiacciante del romanzo, quella che probabilmente ha fatto presa sull’inconscio collettivo di milioni di persone decretandone un successo di portata mondiale.
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