Prima gli idioti, Bernard Malamud, EPUB, Minimum Fax, 243 p.
Nato a New York nel 1914, figlio di immigrati ebrei di origine russa, Bernard Malamud viene abitualmente accostato ad altri due grandi esponenti della letteratura ebraico-americana del secondo Novecento, quali Saul Bellow e Philip Roth, anche se in realtà avrebbe poco da spartire con gli illustri colleghi in fatto di stile e contenuti. Dei tre è infatti l’autore che ha ripreso in misura maggiore la tradizione del racconto centroeuropeo, subendo anche l’influsso del mito e del tono magico che caratterizza i racconti popolari. Come ha scritto Alessandro Piperno, in un articolo che ho trovato interessante, sono in particolare Babel, Kafka, Schultz, Singer e, per alcuni aspetti, il nostro Svevo i suoi cugini più prossimi. Mentre Bellow appare appunto più distante, considerando anche il fatto che per i suoi personaggi «l’America è un’opportunità straordinaria, la patria da conquistare con spavalderia, mentre per Malamud (e per i suoi personaggi) l’America è un problema, l’ennesimo luogo sulla terra ostile agli ebrei e alle brave persone».
Le storie di Malamud, che abbiano o meno degli ebrei come protagonisti, vogliono infatti rappresentare la sofferenza di ogni essere umano al di là dell’origine, della razza d’appartenenza, assumendo in tal senso un valore universale. Come dire che il travaglio esistenziale dei personaggi, la loro ricerca di senso e direzione, la loro ansia di soddisfare piccoli e grandi bisogni mai del tutto soddisfatti, sono esperienze che bene o male riguardano tutti, che ci toccano da vicino. Oltretutto presentate con un realismo che oscilla tra l’ironico e l’amaro e che ogni tanto si concede, come accennato all’inizio, qualche fuga nel surreale. Continua →
La banalità del male, Hannah Arendt, Feltrinelli, 300 p., 2011
Tribunale distrettuale di Gerusalemme, aprile 1961. Dentro una gabbia di vetro anti-proiettili, costruita appositamente per proteggerlo, si intravede “un uomo di mezza età, di statura media, magro, con un’incipiente calvizie, dentatura irregolare e occhi miopi, il quale per tutta la durata del processo se ne starà con lo scarno collo incurvato sul banco (neppure una volta si volgerà a guardare il pubblico) e disperatamente cercherà (riuscendovi quasi sempre) di non perdere l’autocontrollo, malgrado il tic nervoso che gli muove le labbra e che certo lo affligge da molto tempo.” Si tratta di Adolf Eichmann, ex ufficiale delle SS esperto in evacuazione e deportazione, incolpato di aver smistato milioni di ebrei nei campi di concentramento con l’incarico di farli liquidare. L’imputato sta aspettando di essere giudicato dalla corte israeliana “per crimini contro l’umanità commessi sul corpo del popolo ebraico”. Verrà condannato a morte per impiccagione dopo poco più di un anno, nel maggio del 1962.
Hannah Arendt, filosofa e scrittrice tedesca di origini ebree, che negli anni Trenta emigrò dalla Germania per evitare le terribili persecuzioni naziste, viene incaricata dal settimanale The New Yorker di seguire le varie fasi del processo per farne un resoconto da pubblicare in una serie di articoli. Il risultato di tali scritti, poi raccolti e pubblicati nel libro La banalità del male (1963), avrà l’effetto di una bomba al fulmicotone, perché solleverà parecchie questioni di carattere politico, giuridico, sociologico e filosofico che verranno più volte dibattute negli anni futuri. Ma cosa avrà mai scritto la Arendt per provocare un tale polverone?
Il bambino di Noè, Eric-Emmanuel Schmitt, Rizzoli, 2004, 124 p.
Filosofo, drammaturgo e scrittore, Eric Emmanuel Schmitt è tra gli autori francesi più affermati degli ultimi tempi. In Italia è conosciuto soprattutto per il libro ‘Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano’, da cui è stato tratto un film con Omar Sharif nel ruolo del protagonista. Schmitt ha però scritto molte novelle e romanzi di successo, di cui mi limito a citare Odette Toulemonde, Piccoli crimini coniugali, La sognatrice di Ostenda, La mia storia con Mozart. Un accenno lo merita anche il fantastorico “La parte dell’altro”, dove l’autore si è divertito a rielaborare l’immagine e la personalità di Hitler sulla base di un percorso esistenziale alternativo, completamente diverso da quello che è passato alla Storia. Una trama inusuale e a suo modo anche bizzarra, che però fa riflettere.
Ma ora vorrei soffermarmi su questo racconto tanto breve quanto intenso, capace di far vibrare le corde più profonde del cuore. Ambientato nel Belgio occupato dai nazisti durante la seconda guerra mondiale, narra delle vicissitudini di un ragazzino ebreo, un certo Joseph Bernstein, che dopo essere scampato per miracolo alle deportazioni trova rifugio nel collegio gestito da Padre Pons. Quest’ultimo è un personaggio veramente singolare, perché non si limita a salvaguardare le vite umane degli ebrei ma si preoccupa anche di preservarne il retaggio storico e culturale, elevandosi al di sopra delle ataviche divergenze che hanno sempre contrapposto il cristianesimo all’ebraismo. Padre Pons infatti, pur essendo cattolico, custodisce nella cappella sotterranea della chiesa una “collezione” di libri e oggetti sacri di tradizione ebraica, alla maniera di un resuscitato Noè che tenta di proteggere dal “diluvio nazista” non solo i bambini ebrei – come appunto Joseph – ma anche le loro origini, le loro personali credenze, in altre parole la loro “identità”. La figura di questo Padre e la cripta segreta richiamano quindi alla mente le mitiche figure di Noè e l’Arca, destinate a salvaguardare un mondo in dissoluzione attraverso lo straordinario potere della conservazione. E infatti il ragazzino scoprirà, raccogliendo e perpetuando nel tempo il lascito di tale missione, che non è la prima volta che il sacerdote salva e custodisce tutto ciò che gli uomini tentano di distruggere e di far dimenticare. Continua →
Di questo scrittore friulano mi è sempre piaciuto lo stile curato ed elegante, le trame misteriose e suggestive, le storie dei personaggi che si intrecciano tra loro o si estendono in lunghi flashback. In questo articolo parlerò di due suoi romanzi che, per quanto diversi come storia e ambientazione, mi hanno particolarmente colpita: La variante di Lüneburg (pubblicato nel 1993) e Il guardiano dei sogni (2003). Senza togliere nulla a Canone inverso (1996), un altro libro ricco di fascino dove stavolta è la musica a dominare la scena e di cui posterò più avanti un’analisi approfondita.
La variante di Luneburg
La variante di Lüneburg, Paolo Maurensig, Superpocket, 2006, 158 p.
Un ricco imprenditore tedesco muore, lasciando dietro di sé interrogativi e dettagli che nessuno è in grado di interpretare. Eppure accanto al cadavere c’è un elemento abbastanza inquietante che potrebbe essere rivelatorio: una bizzarra scacchiera fatta con pezzi di stoffa grezza e con bottoni incisi che fungono da pedine. Omicidio o suicidio? E per quali motivi? Nulla aiuta a capire se l’uomo sia stato assassinato o si sia tolto la vita, però è strano che una persona facoltosa che possiede una raccolta di scacchiere di gran pregio ne abbia usata una così misera per giocare la sua ultima partita. In realtà si tratta dell’epilogo di una vicenda cominciata oltre cinquant’anni prima, che fa leva su un’incessante e agguerrita rivalità tra due giocatori di scacchi, due personaggi misteriosi la cui identità si posiziona al di fuori di ogni schema. La loro è stata, nel corso del tempo, una continua sfida tra il bianco e il nero, tra il bene e il male, tra la vita e la morte, con una posta in gioco che ha qualcosa di crudele e terribile.
A mio parere un romanzo ben fatto e strutturato in modo originale, anche per questo andare a ritroso nel tempo mischiando aspetti psicologici, episodi storici e situazioni velate da una patina di mistero, il tutto incentrato su quell’affascinante campo di battaglia che è il gioco degli scacchi. Gioco che incarnandosi nella realtà storica romanzata diventa un valido pretesto per tratteggiare le ossessioni umane, per mettere a nudo le pulsioni psicologiche dei personaggi, in particolare quelle più folli e deleterie. Senza addentrarmi oltre nei particolari, aggiungo solo che questo romanzo, oltre ad essere la storia di una eterna competizione che non conosce limiti e che si può risolvere solo in modo drammatico, è anche la Storia di un’epoca che non si può dimenticare, quella della persecuzione del popolo ebreo ad opera del nazismo. E a tal proposito è interessante l’approccio alla tematica della Shoah attraverso il gioco degli scacchi, passione condivisa dai personaggi del romanzo e fil rouge dell’intera vicenda. Una scelta tematica che non poteva essere più indovinata, visto che perfino il grande Kasparov arrivò al punto di affermare, senza tanti mezzi termini, che questo sport è il più violento che esista al mondo. In effetti il gioco degli scacchi è sempre stato concepito come una lotta intellettuale dove si tratta di schiacciare l’avversario, e dove ciò che conta non è solo la strategia ma anche la freddezza emotiva, perché per vincere, come ha detto Nigel Short, uno dei più forti giocatori britannici odierni, bisogna essere anche “pronti ad uccidere”. La scacchiera, insomma, come metafora del gioco con la morte. E all’evidente passione per gli scacchi è ispirato anche il racconto L’ultima traversa di Maurensig, così come il più recente L’arcangelo degli scacchi, uscito nel 2013, incentrato sulla vita del geniale Paul Morphy.
Gli occhiali d’oro, Giorgio Bassani, Mondadori Classici Moderni, 2009, 114 p.
Non c’è nulla più dell’onesta pretesa di mantenere distinto nella propria vita ciò che è pubblico da ciò che è privato, che ecciti l’interesse indiscreto delle piccole società perbene.
Questo libro fa parte dell’imponente progetto “Il romanzo di Ferrara”, un ciclo di storie dedicate da Bassani alla sua città di adozione, che include anche Il giardino dei Finzi Contini, Dentro le mura, Dietro la porta, L’airone, L’odore del fieno. Sono romanzi e racconti destinati a conservare la memoria di un’epoca tormentata, quella che parte dal periodo antecedente la guerra e arriva fino agli anni Cinquanta, mettendone in risalto gli aspetti più statici, deleteri ed estranianti. Si tratta infatti di vicende, atmosfere e stati d’animo che offrono scarse possibilità di riscatto ai protagonisti delle stesse, anche perché lo scrittore aveva scelto di puntare lo sguardo soprattutto sull’individuo che soffre, che rimane da solo o che si sente diverso in mezzo agli altri, rassegnato di fronte all’evolversi di una politica sociale di carattere devastante, com’è stata ad esempio quella della dittatura fascista. L’unica arma che ci resta per ricordare quel periodo e non ricadere nell’errore, sembra voler dire Bassani, è “la memoria”, ossia la scrittura come rimedio contro l’oblio, e quindi una trama narrativa che, per quanto triste e ineluttabile, diventa testimonianza da consegnare alla storia.
Nel romanzo di cui parliamo oggi l’epoca è appunto quella dell’Italia fascista degli anni ’30, caratterizzata da un moralismo di facciata che nascondeva un’intolleranza sempre più incontenibile nei confronti di alcune categorie sociali, soprattutto ebrei e omosessuali. L’io narrante – che al tempo era un giovane studente ebreo, e nel quale Bassani mette molto di se stesso – ricorda quegli anni lontani descrivendo la graduale caduta del dottor Athos Fadigati, un uomo rispettabile e dignitoso ma “diverso”, che si ritrova progressivamente emarginato da un ambiente borghese aspro, cinico, riluttante nei confronti di qualsiasi anormalità. I suoi modi cortesi, la sua generosità con i pazienti, il luccichio dei suoi occhiali d’oro, i vestiti di lana inglese e persino la rassicurante pinguedine non bastano a frenare le maldicenze sul suo conto. Quando poi Fadigati viene avvistato, nel corso di un’estate, in inequivocabile compagnia di un ragazzo bello e spregiudicato, conosciuto da tutti per la vita sregolata, le insinuazioni sulle sue preferenze sessuali non trovano più freni. Dal quel momento tutto cambia nei confronti del dottore: quello che fino a poco prima era tacitamente tollerato, perché solo supposto o immaginato, diventa improvvisamente disgustoso perché manifesto. L’atmosfera velenosamente ipocrita – emblema di una società italiana che stava per vivere la vergogna delle leggi razziali fasciste – lacera senza pietà l’immagine professionale e umana di Fadigati, fino a ridurla a brandelli.
Ogni cosa è illuminata, Jonathan Safran Foer, Guanda, 2002, 327 p.
Questo è un libro che ho letto molti anni fa, ma è come se l’avessi letto ieri. Nel 2002 Jonathan Safran Foer, scrittore americano di origine ebrea, aveva sorpreso tutti, sia pubblico che critica, con tale esordio, sia per la sua giovane età che per lo stile narrativo inusuale e spiazzante. Uno stile che all’inizio tende appunto a confondere le idee, ma che dopo una cinquantina di pagine diventa sempre più scorrevole e coinvolgente. Lo definirei un romanzo tragico, straziante e nello stesso tempo piacevole e spassoso, per quanto possa sembrare paradossale la mia affermazione; eppure non trovo un altro modo per descriverlo, perché è un libro che alterna pagine estremamente commoventi e dense di significato ad altre più leggere e decisamente comiche.
Il protagonista è un giovane ebreo americano di nome Jonathan (l’allusione allo scrittore è evidente), che colleziona in maniera ossessiva tutti gli oggetti che hanno fatto parte della sua famiglia. Trovando una fotografia in cui suo nonno è in compagnia di una donna sconosciuta, forse colei che lo ha salvato dai nazisti durante gli stermini di massa, decide di andare in Ucraina con l’intenzione di scoprire la verità. Durante il viaggio gli si affiancano ben presto dei personaggi alquanto particolari: una guida locale di nome Alexander Perchov, detto Alex, tanto bislacco quanto simpatico, lo scorbutico nonno dello stesso Alex, che nonostante la dichiarata e ostentata cecità si rivela un guidatore abbastanza affidabile, e un’amabile cagnolina rompiscatole, che ha la pessima abitudine di scoreggiare.