Memoriale del convento

Memoriale del convento, José Saramago, Feltrinelli, 2010, 319 p
Memoriale del convento, José Saramago, Feltrinelli, 2010, 319 p

Ci troviamo in Portogallo, nel XVIII secolo. Giovanni V si impegna due sere a settimana ma non c’è nulla da fare, Maria Anna Giuseppa d’Austria non ne vuol sapere di rimanere incinta. Sembra quasi una beffa del destino, visto che al di fuori del letto nuziale il re ingravida con grande facilità a destra e manca, al punto di aver disseminato decine di bastardi per tutto il regno. Ma Dio è grande. Un giorno, infatti, giunge alla corte un francescano che gli assicura che presto vedrà la nascita di un erede, basta che in cambio il sovrano si impegni a costruire un convento  nella città di Mafra. Il re non ci pensa due volte, ne fa solenne promessa e in breve tempo il Signore, quello che sta nell’alto dei cieli, gli concede l’agognato erede, seppur femmina, colei che poi sarà la principessa Maria Barbara.

Sembra quasi una favola, invece si tratta di una vicenda che ha veramente coinvolto la corona portoghese dando l’avvio all’edificazione dell’imponente edificio di Mafra, costituito da un palazzo, da un convento per trecento religiosi e da una basilica di dimensioni tali da competere con quella di San Pietro. Perché Giovanni V, diciamolo pure, un tantino megalomane lo era. Fatto sta che tale costruzione richiese anni di duro lavoro e migliaia di uomini trattati come schiavi, sorvegliati dai soldati e costretti ad un lavoro semi-forzato. Uomini che spesso ci lasciavano la pelle, per la fatica e il rischio che tale impresa comportava.
Ma in fondo, lo sappiamo, la storia è sempre quella da quando è nato il mondo, i nobili e i regnanti da una parte, a sguazzare nei lussi e negli sfarzi, con la benedizione di un clero spesso compiacente se non perfino machiavellico, e i miserabili della plebe dall’altra, a sudare nei campi, a mangiare patate, a svolgere i lavori più faticosi e sgradevoli. Lisbona, come scrive ironicamente l’autore, è una bocca che mastica troppo da una parte e troppo poco dall’altra, non essendoci quindi una via di mezzo tra il gozzo pletorico e il collo raggrinzito, tra il naso rubicondo e l’altro tisico, tra la chiappa ballerina e quella floscia, tra il ventre pieno e la pancia appiccicata alle costole.

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Le braci

Le  braci, Sándor Márai, Gli Adelphi, 2009, 181 p.
Le braci, Sándor Márai, Gli Adelphi, 2009, 181 p.

Riscoperto e rivalutato negli ultimi decenni, lo scrittore ungherese Sándor Márai merita di essere annoverato tra i grandi della narrativa mitteleuropea del secolo scorso, al pari di Joseph Roth, Franz Kafka, Elias Canetti e tanti altri. Alla fine degli anni ’40, dopo che le sue opere furono messe al bando dal regime comunista perché bollate come “borghesi”, Márai fu costretto ad abbandonare la terra d’origine trovando asilo prima in Svizzera e poi in Italia, fino al trasferimento definitivo negli Stati Uniti. Qui visse in modo schivo e solitario, continuando a scrivere nella lingua madre, circondato dall’indifferenza e sempre più emarginato. Nel 1989, in seguito a gravi lutti famigliari, si tolse la vita con un colpo di rivoltella. La sua produzione letteraria, per lungo tempo ignorata, ritrovò finalmente la luce nel corso degli anni ’90, prima in Francia e poi nel resto dell’Europa, permettendo così a tutti di scoprire e apprezzare delle opere meravigliose come L’eredità di Eszter (1939), La recita di Bolzano (1940), Divorzio a Buda (1935), e naturalmente anche Le braci (1942), il romanzo di cui tratterò adesso.

In sostanza questa storia, tanto carente di colpi di scena quanto straripante di pathos, prende forma e struttura da un vecchio rapporto d’amicizia tra due uomini. Due amici che da giovani erano stati inseparabili e che dopo molto tempo si rivedono per chiarire un certo istante che ha segnato per sempre le loro esistenze. Dal momento della loro separazione tutto si era infatti come cristallizzato, in attesa di un futuro incontro. C’è un segreto inquietante che li lega, un segreto che è “una forza che brucia il tessuto della vita come una radiazione maligna, ma al tempo stesso dà calore alla vita e la mantiene in tensione”. E l’origine di questo loro dissidio, su cui aleggia il fantasma di una donna, verrà chiarito nel corso di una lunga notte di analisi introspettiva, come un filo spezzato che viene a poco a poco ripreso e riannodato davanti agli occhi impazienti del lettore. Perché è proprio tramite il soliloquio di uno dei protagonisti, che nonostante la lunghezza si legge con il fiato sospeso, che ogni ricordo viene recuperato e analizzato in tutte le sue sfumature, alla ricerca di una verità già conosciuta ma alla quale è necessario, in qualche modo, dar voce. Il personaggio che parla, così preso dalla foga di fare domande da anticiparne addirittura le risposte, è il generale Henrik, mentre il suo ospite, quasi sempre laconico e silenzioso, è l’amico d’infanzia Konrad. Dal giorno della loro separazione Konrad ha passato lunghi anni ai tropici, in una sorta di autoesilio umido e disagevole, mentre Henrik è rimasto chiuso nel suo castello ai piedi dei Carpazi, circondato dal silenzio dei boschi, nell’attesa di un momento che finalmente è arrivato, un momento che forse gli potrà dare la conferma di un tradimento che risale al lontano passato.

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Espiazione

ESPIAZ
Espiazione, Ian McEwan, Einaudi, Super ET, 2005, 388 p.

Di McEwan viene in genere apprezzata l’abilità con cui riesce a cesellare personaggi, situazioni e contesti ambientali, come anche la capacità di passare al vaglio del setaccio ogni tipo di emozione umana. I suoi libri possono essere più o meno intensi, più o meno avvincenti, ma sono sempre accomunati da uno stile limpido e preciso fin nel dettaglio, da una struttura narrativa pressoché perfetta e da una meticolosa preparazione di base per qualsiasi tematica affrontata.
Definito spesso dalla critica un mago delle parole per la capacità con cui sa trasmettere immagini e sentimenti in modo quasi visivo, questo scrittore è riuscito a farsi apprezzare anche per la tensione e l’inquietudine che spesso infonde alle sue storie, che si rivelano quasi sempre appassionanti fino all’ultima pagina.

Espiazione è uno dei suoi romanzi forse più belli, oltre che tra i più famosi, da cui è stato tratto anche un film per la regia di Joe Wright, con la splendida Keira Knightley nel ruolo di Cecilia. Un film a mio parere intenso quanto il libro; un caso piuttosto raro, a dire il vero, visto che spesso le trasposizioni cinematografiche storpiano senza alcuna pietà le trame dei romanzi.
La storia inizia a Villa Tallis, nella campagna inglese dei primi anni Trenta, e ci presenta la protagonista Briony, una vivace tredicenne aspirante scrittrice, nel momento esatto in cui si affanna ad imbastire una rappresentazione teatrale per festeggiare il ritorno dell’adorato fratello maggiore. Briony è una ragazzina caratterialmente complessa e dotata di vena creativa, alle prese con tutte le emozioni adolescenziali tipiche della sua età; una bambina che crede di capire così tanto delle “cose dei grandi” da non preoccuparsi della possibilità di errori e limiti nella percezione reale degli eventi. In altre parole, Briony condensa nella sua personalità tutta quell’ingenua e insopportabile presunzione che è tipicamente infantile. Ed è proprio questa caratteristica che la spingerà a fraintendere una scena di intensa passione tra sua sorella Cecilia e Robbie, il figlio di una domestica, scambiandola per una violenza imposta. Un abbaglio di comprensione provocato dai turbamenti per una realtà che non conosce, per di più alimentato da una fervida immaginazione, che da lì a poco la spingerà – dopo un fatto grave e imprevisto accaduto ad una cugina – ad avanzare delle accuse terribili nei confronti del povero Robbie, che in realtà è totalmente innocente. Da quel momento, senza rendersene conto e senza volerlo veramente, Briony rovinerà irrimediabilmente la vita di una coppia di giovani innamorati, infliggendosi un debito talmente grosso che ben presto le risulterà insostenibile. Poi nel corso degli anni, passando da un’esperienza di vita all’altra, Briony cercherà di fare di tutto per arginare e quietare i morsi della coscienza, fino al punto di elaborare un’altra sorprendente suggestione, questa volta però voluta e intenzionale…

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Quando il diavolo ci mette lo zampino…

Il Maestro e Margherita, Michail Bulgakov, ET Einuadi 2013, 390 p.
Il Maestro e Margherita, Michail Bulgakov, ET Einuadi 2013, 390 p.

Questo è un romanzo veramente spettacolare, una miscela esplosiva di immagini comiche, surreali e mistiche che ti inchioda sulle pagine fino all’ultima riga. Non per niente è ritenuto uno dei capolavori più originali della letteratura russa del Novecento.
Osteggiato per molti anni dalla critica del regime sovietico, bruciato in un momento di rabbia dallo stesso Bulgakov, poi riscritto, modificato più volte e finalmente pubblicato, in versione censurata, solo dopo la morte dell’autore, oggi il romanzo può essere finalmente letto nella sua versione integra e originale. Un punto a sfavore, se proprio lo vogliamo trovare, sono i nomi russi abbastanza complicati da ricordare, tanto che è facile perdere l’orientamento nella prima metà del libro. Lo stesso personaggio, infatti, viene talvolta chiamato per nome e cognome, altre volte solo per nome o solo per cognome, altre volte addirittura con un nomignolo (!)

La vicenda si svolge nell’Unione Sovietica degli anni Trenta, cioè nell’epoca in cui è stata scritta (fatto che spiega, ma non giustifica, l’accanimento della censura nei confronti di Bulgakov; una prima edizione completa in lingua russa apparirà solo nel 1969, a trent’anni dalla sua morte).
Ci troviamo nel periodo delle famose purghe staliniane, dove un regime totalitario di stampo comunista predica l’ateismo, nega la libertà di parola e applica una politica di feroce repressione. Qui il Diavolo in persona, nelle vesti di un consulente di magia nera, si intromette all’improvviso nel colloquio tra due scrittori di regime che sono intenti a scambiarsi opinioni sulla natura leggendaria e non storica del Messia. L’ambiguo personaggio, che dice di chiamarsi Woland, si diverte a smantellare le tesi ateistiche dei due letterati, rivelando di aver assistito di persona all’interrogatorio di Yeshua poco prima della sua condanna. E per convincere i due attoniti interlocutori della verità di ciò che sta affermando, comincia a raccontare ciò che ha visto e sentito… A questo punto il lettore si ritrova catapultato in un’altra epoca, nel momento del fatidico incontro tra Ponzio Pilato e Gesù, e il dialogo che ne scaturisce ha qualcosa di così umano e toccante che già da solo meriterebbe la lettura del libro.

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Diceria dell’untore

Diceria dell'untore, Gesualdo Bufalino, Bompiani, 2009, p.185.
Diceria dell’untore, Gesualdo Bufalino, Bompiani, 2009, p.185.

Quando ho letto per la prima volta Bufalino sono subito rimasta colpita dalla sua scrittura così colta, espressiva e raffinata, oltre che dalla sua incredibile capacità di utilizzare le metafore nei modi più arditi e impensati. Ho però notato che oggigiorno è un autore poco conosciuto, soprattutto dalle ultime generazioni, forse perché ha uno stile talmente ricercato che a molti potrebbe apparire anacronistico. Eppure i suoi scritti sono una fonte inesauribile di spunti lessicali di estrema bellezza, da leggere e rileggere non solo per ampliare la conoscenza della lingua italiana, ma anche per farsi avvolgere e inebriare da una sequela di immagini che sta sempre in bilico tra prosa e poesia.

Per quanto riguarda il libro in esame, devo ammettere che non è facile recensire un’opera di questo calibro, a mio parere tra le più riuscite dell’autore. La storia, per molti aspetti struggente, affonda le sue radici in un’esperienza realmente vissuta dallo scrittore, visto che prende spunto da una sua lunga degenza causata dalla tisi. Ricordi effettivi si mescolano quindi con fatti vagheggiati e fantasticati, anche se alla fine sono questi ultimi a prevalere. Il protagonista è dunque l’autore stesso, o meglio il suo alter ego, reduce dalla guerra con «un lobo di polmone sconciato dalla fame e dal freddo», ricoverato in un sanatorio palermitano nell’estate del ’46. In questo luogo di tubercolotici «secchi come uno sparo e umiliati da continui colpi di tosse», che si intrattengono a vicenda con discorsi, chiacchiere e piccole dispute, sperando in tal modo di prolungare un’esistenza che in realtà serba scarse possibilità di futuro, al protagonista non resta che tentare di sopravvivere alla malattia, magari convincendosi di esserne solo un ostaggio provvisorio, anche se:

… non c’era giorno o notte, alla Rocca, che la morte non m’alitasse accanto la sua versatile e ubiqua presenza, ch’io non ne intravedessi, in una striscia di luce o in un mucchietto di polvere, le imbellettate fattezze, ora d’angela ora di sgherra. Lei era la meridiana che disegnava sul soffitto delle mie insonnie le pantomime del desiderio; lei la tagliola che mi mordeva il calcagno; il mare di foglie che il sole tramuta in brulichio di marenghi; lei la buca d’obice, l’in pace, le quattro mura di ventre dove nessuno mi cerca.

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