La gioia di scrivere – 2a parte

Fot. Adam Golec / Agencja Gazeta
Wisława Szymborska (Fot. Adam Golec / Agencja Gazeta)

Nel precedente post ho parlato dello stile piacevolmente ironico di Szymborska, e di quanto spesso il suo messaggio risulti comprensibile, accessibile un po’ a tutti, pur non essendo affatto scontato. Un’altra particolarità della sua poetica, che proprio per questo la rende unica e riconoscibile, è l’attenzione quasi sempre rivolta alla quotidianità del mondo reale, con osservazioni che decollano da un’inezia, da un dettaglio anche banale, per poi allargarsi in volo ad una visuale di più ampio significato. Non a caso l’autrice era stata definita una miniaturista dai critici letterari, proprio per questa sua tendenza a “comprimere” nei versi gli aspetti più pregnanti della condizione esistenziale umana, con un uso spesso felice e talora sorprendente delle metafore adottate.
Solo lei poteva, ad esempio, dedicare dei versi a una cipolla, intesa come ideale di perfezione da contrapporre all’essere umano, il quale ha sì il dono di una preziosa e irrepetibile singolarità, ma purtroppo è anche impastato di continue contraddizioni, di conflitti e zone d’ombra, tutti difetti che l’ortaggio sembra invece non conoscere (La cipolla, p.389):

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La gioia di scrivere – 1a parte

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La gioia di scrivere, Wislawa Szymborska, Adelphi, 2009, 828 p.

La poesia, in particolare quella contemporanea, è ancora oggi relegata a un ruolo marginale – vale a dire cercata, letta e amata da non molti cultori – forse perché a volte si presenta in forma ermetica e ambigua, talora anche male impostata nella forma, agendo così da repellente verso dei possibili fruitori. Però ci sono dei casi in cui la poesia parla, parla un po’ a tutti, grazie all’immediatezza delle procedure rappresentative di cui si serve, e quando la poesia riesce a parlare sono in molti quelli che hanno ancora voglia di ascoltare.
Nel caso di Wisława Szymborska accade appunto questo miracolo, perché i suoi pensieri, per quanto interessati a cercare il senso profondo di ogni condizione umana (senza peraltro la pretesa di riuscirci), si presentano con un linguaggio di facile accesso che permette ai lettori di immedesimarsi o rispecchiarsi nelle varie questioni esposte.
A differenza dei poeti sibillini e al contrario di quelli autoreferenziali, Szymborska ha infatti la capacità di accostarsi al lettore con naturalezza, per condividere con lui gioie e dolori, interrogativi e fragilità, dubbi e speranze, come se stesse quasi parlando a un amico. Lei stessa, del resto, aveva fatto capire più volte quanto ci tenesse al fatto che i lettori percepissero le sue poesie come “fossero loro”, scritte per loro. Una predisposizione d’animo, questa, che sicuramente ha contribuito al grande successo della sua opera poetica, che negli ultimi anni ha raggiunto livelli da record anche nel nostro paese.
Detto questo, devo aggiungere che non è stato facile destreggiarsi nel mare magnum di questa prolifica autrice polacca, perché il dover scegliere un numero limitato di poesie ha implicato la necessità di escluderne altre ugualmente valide, ma ho comunque cercato di fare del mio meglio per allestirne un quadro il più ampio possibile. La lunghezza dell’articolo è stata pertanto inevitabile, ma si giustifica anche col fatto che Wisława Szymborska, nata a Cracovia nel 1923 e scomparsa nel 2012, si meritava un omaggio in piena regola, con tutte le attenzioni e gli onori del caso. A causa della vasta panoramica è stato anche necessario suddividere l’articolo in due parti, in modo da non sobbarcare i lettori a troppe suggestioni tutte in una volta.

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Racconto d’autunno

Racconto d’autunno, Tommaso Landolfi, Adelphi, 2013, pp. 133
Racconto d’autunno, Tommaso Landolfi, Adelphi, 2013, pp. 133

Un partigiano braccato nei boschi, una dimora vetusta e isolata, un vecchio scostante e misterioso, il ritratto di una donna affascinante, un sotterraneo che nasconde dei segreti inquietanti…
Questi gli ingredienti principali del romanzo, dove l’iniziale realismo della guerra partigiana lascia progressivamente il posto ad una tragica vicenda d’amore e morte, che per molti aspetti si ricollega all’atmosfera cupa, fantastica e malinconicamente romantica di tanta narrativa gotica inglese.

In un periodo che l’autore non precisa, ma che corrisponde alla seconda guerra mondiale, un partigiano in fuga dall’esercito invasore si trova costretto, come tanti, a vagabondare a lungo in zone selvagge che sono lontane dalla sua sede abituale. Ad un certo punto, seguendo un sentiero nel bosco, giunge stanco e affamato presso una grande casa dall’aspetto signorile e decadente, che pare abbandonata ma che invece è abitata da un vecchio malmostoso. Questi si dimostra fin da subito riluttante ad offrirgli ospitalità, ma alla fine cede di controvoglia, sperando che l’importuno si tolga dai piedi al più presto. La scontrosità del vecchio viene enfatizzata ancora di più dalla presenza di due cani feroci e minacciosi, che sembrano ubbidirgli ciecamente affiancandolo in ogni spostamento. Nonostante questo, col trascorrere dei giorni il protagonista – che nel libro sta raccontando l’intera vicenda in prima persona – decide di prolungare il suo soggiorno nel maniero, non solo per tutelarsi dai rischi esterni ma anche perché attratto in modo irresistibile da un’immagine femminile intravista in un quadro…

Era un ritratto a mezzo busto di giovane donna, che fissava il riguardante; un olio alquanto annerito, ma non tanto che non si distinguessero i particolari. La donna era vestita secondo la moda degli ultimi anni del secolo passato o dei primi di questo, con tutto il collo chiuso in un’alta benda di pizzo; di pizzo era anche la veste, dalle maniche sboffate; sul petto ella recava un grande e complicato pendentif o breloque (come allora si diceva) di topazi bruciati, sorretto da nastri di seta marezzata; sulle spalle un amoerro, ricadente in larghe e convolte pieghe. La massa dei capelli bruni era pettinata in conseguenza, cioè in ampio cercine o cannuolo attorno alla fronte, in mezzo al quale spiccava un minuscolo diadema a forma di corona. Le di lei fattezze, delicate e chiare, recavano l’impronta inequivocabile della nobiltà di sangue e di carattere, e quel minimo di sdegnosità che l’accompagna sovente. Le guance appena arrotondate attorno alla bocca attribuivano, inoltre, a quel volto qualcosa di vagamente infantile. (pag.47)

Ma sono soprattutto gli occhi del ritratto, scuri e conturbanti, che sembrano quasi vivi, a colpire il visitatore. La sua curiosità viene però subito ostacolata dall’atteggiamento rigido del vecchio, che si affretta a stabilire una serie di regole e divieti, come ad esempio quello di non accedere a certe zone riservate dell’ampia casa. Ma come è facile supporre, il protagonista-narratore violerà ben presto i suddetti limiti, aspettando ogni volta il momento propizio per addentrarsi nei meandri del vecchio caseggiato alla ricerca di una fantomatica presenza femminile, di cui a tratti gli sembra di percepire i passi, il respiro, il profumo, e che nella sua mente suggestionata ricollega al dipinto recentemente osservato. E in questi viaggi esplorativi che si snodano tra corridoi, stanze, locali sotterranei e inaspettati passaggi segreti, all’interno di un maniero labirintico che appare senza fine e che diventa ad ogni angolo sempre più inquietante, alla ricerca di non si sa bene cosa e col rischio di venire scoperti da un momento all’altro, anche chi legge la storia, al pari dello stesso narratore, si ritrova di frequente con il fiato in sospeso, avvinghiato alle pagine e incapace di staccarsene, tanto è appunto il clima di incertezza e continua aspettativa che trasuda dal racconto.

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Due piccole grandi storie

Il ballo, Irène Némirovsky, Adelphi, 2005, pp. 83
Il ballo, Irène Némirovsky, Adelphi, 2005, pp. 83

La signora Kampf entrò nello studio chiudendosi la porta alle spalle così bruscamente che tutte le gocce di cristallo del lampadario, mosse dalla corrente d’aria, tintinnarono d’un suono puro e leggero di sonagli. Ma Antoniette aveva continuato a leggere, china sullo scrittoio tanto da sfiorare la pagina con i capelli. La madre la osservò un istante senza parlare, poi le si piantò davanti a braccia conserte.

Così inizia Il ballo di Irène Némirovsky, con parole che evidenziano al massimo l’essenza caratteriale delle due protagoniste, madre e figlia, che già da queste prime battute appaiono in netta contrapposizione tra loro: quanto burbera e dispotica appare la prima, tanto mite e distaccata sembra l’altra. La scrittrice ci piazza fin da subito davanti agli occhi l’irritante signora Kampf, un’arrogante e volgare parvenu che si autoesalta all’idea di organizzare un sontuoso ricevimento in casa, in modo da sentirsi all’altezza della brillante società parigina. La figlia quattordicenne Antoinette, alle prese con le pulsioni tipiche dell’età, vorrebbe partecipare all’evento per fare il suo debutto in società, e già sogna di ballare al braccio di qualche affascinante giovane galantuomo. Il suo desiderio viene però subito infranto dalla stizzosa madre che, infervorata dal desiderio di essere l’unica a primeggiare, anche per compensare delle evidenti frustrazioni sociali, le impone un divieto assoluto di accedere alla festa nel giorno prestabilito. Ad Antoniette non resta quindi che piangere, quando è da sola nella sua camera, sfogando rabbia e lacrime sul cuscino…

Sporchi egoisti, ipocriti, tutti, tutti… Se ne infischiavano che lei soffocasse a forza di piangere, sola, al buio, che si sentisse misera e derelitta come un cane smarrito… Nessuno le voleva bene, nessuno al mondo… Ma non vedevano dunque – ciechi, imbecilli – che lei era mille volte più intelligente, più raffinata, più profonda di tutti loro, di tutta quella gente che osava educarla, istruirla… Arricchiti volgari, ignoranti… Ah, come aveva riso di loro per tutta la sera! E loro, naturalmente, non si erano accorti di nulla… Poteva piangere o ridergli sotto gli occhi, non la degnavano di uno sguardo… Una bambina di quattordici anni, una ragazzetta, è un qualcosa di spregevole e di infimo, come un cane… Con che diritto la mandavano a dormire, la punivano, la ingiuriavano? «Ah, vorrei che morissero!». Al di là del muro sentiva l’inglese respirare quietamente nel sonno. Antoinette ricominciò a piangere, ma più piano, assaporando le lacrime che le scorrevano agli angoli della bocca e all’interno delle labbra; d’un tratto la invase uno strano piacere: per la prima volta in vita sua piangeva così, senza smorfie né sussulti, in silenzio, come una donna… In seguito avrebbe pianto, per amore, le stesse lacrime… Ascoltò a lungo i singhiozzi risuonarle nel petto come un’ondata profonda e bassa nel mare… La sua bocca bagnata di lacrime aveva un sapore salmastro… Accese la lampada e si guardò con curiosità allo specchio. Aveva le palpebre gonfie, le guance rosse e chiazzate. Come una bambina che sia stata picchiata. Era brutta, brutta… Singhiozzò di nuovo.

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Wislawa Szymborska, tre poesie

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Una vita all’istante

Una vita all’istante.
Spettacolo senza prove.
Corpo senza modifiche.
Testa senza riflessione.

Non conosco la parte che recito.
So solo che è la mia, non mutabile.

Il soggetto della pièce
va indovinato direttamente in scena.

Mal preparata all’onore di vivere,
reggo a fatica il ritmo imposto dell’azione.
Improvviso, benché detesti improvvisare.
Inciampo a ogni passo nella mia ignoranza.
Il mio modo di fare sa di provinciale.
I miei istinti hanno del dilettante.
L’agitazione, che mi scusa, tanto più mi umilia.
Sento come crudeli le attenuanti.

Parole e impulsi non revocabili,
stelle non calcolate,
il carattere come un cappotto abbottonato in corsa –
ecco gli esiti penosi di tale fulmineità.

Poter provare prima, almeno un mercoledì,
o replicare ancora una volta, almeno un giovedì!
Ma qui già sopraggiunge il venerdì
con un copione che non conosco.
Mi chiedo se sia giusto
(con voce rauca,
perché neanche l’ho potuta schiarire tra le quinte).

Illusorio pensare che sia solo un esame superficiale,
fatto in un locale provvisorio. No.
Sto sulla scena e vedo quant’è solida.
Mi colpisce la precisione di ogni attrezzo.
Il girevole è già in funzione da tempo.
Anche le nebulose più lontane sono state accese.
Oh, non ho dubbi che questa sia la prima.
E qualunque cosa io faccia,
si muterà per sempre in ciò che ho fatto.
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Fame

Fame, Knut Hamsun, Adelphi, 2009, 186 p.
Fame, Knut Hamsun, Adelphi, 2009, 186 p.

Ci siamo mai chiesti quali possano essere le conseguenze di un digiuno prolungato e non voluto? Possiamo immaginarcelo cosa significhi stare per alcuni giorni senza mangiare? Senza mangiare veramente? Fino al punto di sentirsi sconvolti dalla brutalità dei morsi che attanagliano lo stomaco, spaventati dalla debolezza che si impossessa di ogni arto, storditi dall’angoscia che obbliga la mente a farneticare… E come se non bastasse, sentirsi soprattutto tormentati da quell’urgenza fisiologica di nutrirsi che non dà pace, da quella necessità di ingurgitare cibo, di ingurgitarne tanto, con una bramosia che non concede tregua e che infierisce in ogni momento della giornata, fino a quando un’occasione soddisfa finalmente tale necessità, che però viene quasi subito mortificata da un tremendo conato di vomito, perché lo stomaco non è più abituato a trattenere nessun alimento…

É possibile figurarselo tutto questo senza averlo vissuto in prima persona? Per quanto mi riguarda ne sono poco convinta, e infatti fin dal giorno in cui ho letto per la prima volta questo libro, che tratta appunto dei travagli causati dalla fame, mi sono sempre chiesta se all’autore fosse capitata la disgrazia di provare un’esperienza simile per riuscire a descriverla così bene. La sofferenza patita dal protagonista del romanzo è infatti di una tale portata e intensità, accentuata anche dalla narrazione in prima persona, che sospettarlo è quasi d’obbligo. Sono quindi andata a caccia di ulteriori informazioni e ho scoperto che la storia è in gran parte autobiografica; forse lo scrittore non sarà proprio arrivato al punto di dormire sulle panchine, e magari non avrà nemmeno sfiorato così tante volte la morte, ma l’infanzia passata nella miseria c’è stata, così come la continua ricerca di un lavoro nello strenuo tentativo di sopravvivere decorosamente, fino al raggiungimento dei primi successi letterari.

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La recita di Bolzano

La recita di Bolzano, Sàndor Màrai, Adelphi, 2012, 264 p.
La recita di Bolzano, Sàndor Màrai, Adelphi, 2012, 264 p.

Giaceva di traverso e dormiva appassionatamente, dimentico di sé, con la testa madida di sudore, a gambe larghe e braccia spalancate, un sorriso stanco e sprezzante sulle labbra, come se intuisse che lo stavano guardando dal buco della serratura.

In effetti qualcuno lo stava osservando, passando con sguardo curioso dal suo viso cupo e sgraziato, già inciso da molte rughe, al suo naso grande e carnoso, al mento aguzzo e prepotente. Lo spettacolo era infatti quello di un uomo abbastanza brutto e avanti con gli anni, al che Teresa, la serva della locanda dove lo straniero aveva da poco pernottato, si stava domandando cosa potesse avere di tanto speciale da risultare così affascinante agli occhi di tutti, in particolare a quelli delle donne, visto che dopo la rocambolesca fuga dal carcere di Venezia la sua fama di avventuriero, passando di bocca in bocca, dai mercati alle osterie, l’aveva preceduto ancor prima dell’arrivo a Bolzano. Teresa lo stava insomma spiando senza troppo pudore, in compagnia di altre comari morbose e indiscrete, neanche fosse una specie rara, uno strano animale in via d’estinzione.

Era come se attraverso il buco della serratura avessero visto finalmente un uomo, come se, nell’attimo stesso in cui avevano posato gli occhi sullo sconosciuto immerso nel sonno, avessero sottoposto i loro mariti, i loro amanti e gli altri uomini incontrati fino a quel momento a un esame imprevisto.

Perché i maschi – come intuirono le femmine in quell’attimo così esaltante – erano di solito padri e mariti a cui piaceva ostentare atteggiamenti virili, darsi arie di superiorità, correre dietro le gonnelle, esibire patrimoni, pavoneggiarsi con cariche e titoli fino a rasentare il ridicolo, mentre riguardo a questo forestiero si dicevano cose ben diverse. Girava ad esempio la voce che egli fosse un truffatore perseguitato da creditori e strozzini inferociti, un reietto dell’umanità inseguito dagli sbirri e da mute di cani attraverso le frontiere, incalzato addirittura dai mercenari dell’Inquisizione per peccati commessi contro la morale e la virtù, ma che nello stesso tempo fosse anche un uomo che non pretendeva dalle donne tenerezze diverse da quelle che era in grado di offrire, che non aveva bisogno di alzare la voce per dimostrare qualcosa o di gonfiare il petto per declamare i suoi sentimenti. Un vero uomo, insomma, come in giro non se ne trovavano più, e che era tale con ostinazione e fino in fondo, così come una quercia è semplicemente una quercia e una roccia è semplicemente una roccia; un uomo, in definitiva, che voleva soltanto dare e ricevere, senza fretta e senza avidità, perché ha dedicato l’intera esistenza, ogni sua fibra, ogni barlume della sua coscienza e ogni muscolo del suo corpo al richiamo imperioso della vita.

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Mentre morivo

Mentre morivo, William Faulkner, Adelphi, 2000, 232 p.
Mentre morivo, William Faulkner, Adelphi, 2000, 232 p.

Questo libro è un osso duro da recensire. L’ho riletto in questi giorni, a distanza di qualche tempo, e sebbene ne sia stata nuovamente colpita mi sono anche resa conto che non è facile da presentare.
Come sia riuscito Faulkner a dare forma ad un tale parto letterario, per di più – così dicono – mentre lavorava di notte come fuochista in una centrale elettrica nell’estate del 1929, usando come tavolino una scomoda carriola capovolta, è un vero mistero. Credo che solo una mente geniale e pazzoide potrebbe riuscire in un’impresa simile, considerando anche la complessità e la qualità del testo. Del resto un genio, per essere veramente tale, deve pur avere una componente di follia che gli scorre nelle vene, perché è proprio questa che spesso gli permette di vedere oltre, di cogliere quegli aspetti che alle persone ordinarie invece sfuggono.

Diciamo subito che anche in questo romanzo, come nel bellissimo L’urlo e il furore, assistiamo alla graduale decadenza di un nucleo familiare, seppure in forme e modalità diverse. Immaginatevi una coppia e cinque figli che vivono nella contea di Yoknapatawpha nel Mississippi (luogo ormai mitico e ricorrente nelle opere di Faulkner), dove conducono una vita parca e stentata, fatta di miseria e sacrifici. Immaginate poi che la mater familias, gravemente malata, si faccia promettere in punto di morte dal marito di essere trasportata con la bara fino nella sua terra d’origine, per poter riposare eternamente accanto ai suoi avi. E poi immaginatevi questo strampalato convoglio alle prese con un viaggio tanto arduo quanto insidioso, minacciato da acquazzoni, diluvi, fiumi in piena, ponti e strade interrotte, incendi inaspettati e via dicendo, che mettono più volte a repentaglio l’integrità della bara. Insomma, una vera e propria via crucis che nonostante i giorni di viaggio prolungati dagli imprevisti, con tanto di avvoltoi al seguito attratti dal fetore della salma in putrefazione, alla fine si conclude senza drammi troppo eccessivi, ma anzi con la prospettiva di un futuro migliore.

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