Riconciliazione

Eccomi di nuovo qui, come una rondine che torna al nido, in questo giardinetto abbandonato da mesi. Una rondine a dire il vero un poco sciocca, perché incapace di orientarsi con le stagioni. Il terreno è infatti ormai asciutto, l’erba ingiallita, le foglie cadute da un pezzo. Il verde scomparso dal pollice e da qualsiasi orizzonte. Tutto questo a dispetto delle belle giornate di sole, che hanno prolungato ad oltranza l’estate. Ma se fuori, lungo le strade, c’è uno spettacolo di luci e colori favorito da un’aria ancora tiepida, nel giardinetto in questione proprio no, qui ogni cosa è rimasta nell’ombra ed è quasi appassita, e tentare adesso di rinvigorire il terreno, di riconcimarlo ben bene per rimetterlo in sesto, richiederebbe una forza sovraumana che in realtà non mi appartiene e nella quale non mi riconosco affatto. Meglio allora attendere l’arrivo dell’inverno, che con il suo manto bianco e silenzioso prolungherà i tempi dell’attesa. Forse qualcosa di buono comincerà a ricrescere dalla punta delle radici e avanzerà poi verso l’alto, fino a trovare lo spiraglio adatto…

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Un uomo inutile

Bottegai, operai, camerieri, lustrascarpe, gente di mare, orfani, vagabondi, ma anche ladri, alcolizzati e prostitute, individui saggi e altri sfasati che si muovono sullo sfondo delle isole e dei quartieri popolari di una Istanbul anni ‘30-40, tra piccole botteghe e lerci caffè, tra osterie dove si mangia la trippa e litorali battuti dal vento. O lungo i viottoli invasi dai carretti trascinati da ragazzini mal vestiti e macilenti, i quali hanno già imparato, a proprie spese, l’arte della sopravvivenza.

Questi sono i protagonisti delle storie di Sait Faik Abasıyanık, scrittore e poeta turco che ai salotti colti di Istanbul preferiva le barche dei pescatori e le bettole dell’isola di Burgaz, dove stava seduto per ore dietro un tavolo ad osservare le persone che entravano e uscivano dalla porta, da cui traeva continuo spunto per i suoi racconti. Ecco così che le fattezze o le posture di uno sconosciuto, il suo ostentare una barba rasata senza troppa cura o una macchia sul bavero del soprabito, o magari delle mani senza tracce di calli o residui di vernice, diventavano subito materia pulsante su cui imbastire una storia, su cui inventare un frammento di vita. E quando poi si recava a Istanbul, lo faceva per percorrere in lungo e in largo quartieri e viuzze di ogni sorta, sempre alla ricerca di ispirazione.

L’epoca era quella della Turchia dei primi anni della Repubblica, che non era tanto prodiga di onori con i suoi letterati, e infatti non mancarono all’autore sospetti e interventi censori da parte di un governo che peccava di forte nazionalismo e che quindi non vedeva di buon occhio i protagonisti greci, armeni, cristiani o ebrei che si alternavano nei suoi racconti. In realtà Sait Faik parlava anche della sua gente, peraltro senza evitare di metterne in luce i difetti. Fatto sta che per la burocrazia turca era soltanto un disoccupato che sopravviveva grazie a un lascito paterno, e anche per tale motivo (o forse come pretesto) gli fu negato lo status di scrittore sul passaporto, nonostante la nomina di membro onorario ricevuta della Mark Twain Society. Mentre oggi tutto è cambiato, ormai da tempo l’autore gode di fama postuma, venerato e acclamato come il padre della letteratura turca moderna (grazie anche alle innovazioni stilistiche della sua prosa), al punto che la sua casa è stata perfino trasformata in un museo.

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Sait Faik Abasıyanık – Pioggia

Donne incrociate per strada, adocchiate al volo su un ponte o all’angolo di un quartiere, osservate e immortalate da un talentuoso scrittore turco del secolo scorso, qui da noi ancora poco conosciuto. Donne che accendono desideri incontenibili nell’io narrante, il quale le ossequia con un’esuberanza in parte contenuta da una timidezza che ha un sapore d’altri tempi, e con una delicatezza d’animo che ai giorni nostri si è ormai persa per strada ma che adesso abbiamo l’occasione di recuperare, di riapprezzare attraverso una serie di racconti che si prospettano tanto incantevoli quanto fuori dall’usuale. In quello qui proposto l’incontro con il femminile è anche pretesto per uno sfogo momentaneo del cuore, dacché nasce dal bisogno di condividere il peso della propria solitudine con una persona del tutto estranea, e poco importa, a conti fatti, se il sollievo è destinato a durare solo pochi istanti. Ecco, per ora non aggiungo altro, affidandovi invece ai modi e ai toni affabilissimi dell’autore, certa che apprezzerete. Poi, in tempi che spero brevi, seguirà un articolo interamente dedicato.

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Il fischio del merlo

John Cowper Powys. Qualcuno lo conosce e per caso l’ha mai letto? Siamo in pochi, immagino. Lo deduco dal fatto che ancora oggi le sue opere non vengono tradotte e divulgate in Italia, se non il romanzo Wolf Solent (scritto nel 1929), riproposto di recente da Corbaccio con il titolo originale inglese, mentre nel 1935 la scelta editoriale era caduta sul più enfatico “Estasi”, forse perché si pensava, in questo modo, di far presa su una fetta molto ampia di lettori. Negli anni del regime fascista c’era inoltre la tendenza a italianizzare le parole straniere, che venivano regolarmente abolite e sostitute con termini equivalenti. Non solo per quanto riguarda i titoli dei romanzi, ma anche per i cognomi e svariate cose di utilizzo comune, cosicché “albergo” sostituì “hotel” e la pellicola rimpiazzò il film. Mentre il sandwich, su suggerimento di D’Annunzio, si trasformò in un tramezzino.

Comunque, patriottismi a parte, Estasi era un titolo un tantino fuorviante, dal momento che poteva far pensare al genere romance (già in voga nei primi decenni del Novecento), mentre non è questo il caso; qui non si tratta infatti di rapimenti amorosi, ma di tutt’altro genere di rapimento. Sì, c’è anche l’amore sullo sfondo, che addirittura si alterna e si consuma per due donne che sono agli antipodi per carattere e tratti somatici, ma ciò che prevale nel protagonista non è tanto l’eccesso di sentimentalismo quanto la ricerca di una connessione profonda con il creato, con le potenze naturali e cosmiche, al punto di arrivare ad elaborare una forma di mitologia a proprio uso e consumo… Ciò che affascina di Wolf è proprio questa sua tendenza a perdersi nei pensieri e ad abbandonarsi a lunghe serie di fantasticherie, dove gli risulta facile plasmare delle immagini per ogni idea che gli passa per la testa. Immagini che fluiscono dalle varie sensazioni che prova, belle o brutte che siano, e che affascinano per la dovizia di particolari con cui vengono espresse, persino quando sfumano verso aree dai contorni più eterei e impalpabili.

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Cortázar #3 – Materiale plastico

Ultimo brano di Cortázar che propongo. Poi vado a rituffarmi nelle pagine dove sguazzavo fino a poco tempo prima, che di romanzi iniziati, a metà o quasi conclusi, ne ho parecchi in ballo. Alcuni già digeriti ed elaborati, a dire il vero, ma se voglio recensirli devo per forza ricaricare le batterie. Fino a qualche giorno fa, con il caldo che faceva, erano completamente a terra, adesso che l’aria è lievemente rinfrescata sembrano ridare segnali d’attività… Mah! Speriamo.
Tornando allo scrittore argentino, che mi piace identificare nella figura per eccellenza del cronopio (vi ricordate? quello che sovverte le regole, che scarabocchia fuori dai margini), guardate un po’ cos’ha tirato fuori, stavolta, dal suo cilindro magico senza fondo… Un testo di straordinaria bellezza, che vi consiglierei di leggere subito, ancor prima della mia introduzione (saltate qualche riga e andate giù, giù, ancora più sotto, poi tornate qui che vi aspetto 🙂 ).

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Cortázar #2 – Occupazioni insolite

Ah, questo brano, una delizia per la mente! Un distillato di ingegnosa e sottile ironia, da maneggiare però con le dovute cautele… Che non vi venga infatti la tentazione di farla, questa cosa, che non vi passi per la testa l’idea di provarci! State ben lontani dai lavandini, mi raccomando, e trovate un altro modo, più semplice e meno dispendioso, di passare il tempo libero e contrastare quella smania, tipicamente tutta umana, di ottenere risultati utili da qualsivoglia azione. Capisco quell’ineffabile piacere, simile all’orgasmo, nel caso di un improbabile colpo di fortuna (dopo una serie di manovre tanto azzardate!), ma se la ruota dovesse invece girare da un’altra parte, come pensereste poi di cavarvela, moralmente parlando? Non prendo neppure in esame l’aspetto economico dell’impresa, perché è scontato che, seguendo il percorso via via illustrato, ci si ritroverebbe in braghe di tela in men che non si dica. Cosa dite!!? Che volete provaci lo stesso? Che volete cedere all’ebbrezza del futile, del follemente inutile, così da pregustare il sapore di un’improbabile futura vittoria mentre un brivido di paura vi scorre lungo la schiena, mentre il sudore vi imperla la fronte nel bel mezzo di tanta sciagurata fatica? Va be’, fate come volete, poi non venite a dirmi che non vi avevo avvertito 😉

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Cortázar #1 – Manuale di istruzioni

Per parlare di Julio Cortázar e della mirabolante inventiva scaturita dal suo cervello non basterebbe una decina di post. Pertanto, nell’attesa di trovare la forza per confezionare un articolo come si deve, mi accontento di proporvelo a pizzichi, a piccoli assaggi, certa del fatto che non vi lascerà indifferenti. Su di me, devo ammetterlo, ha un effetto straniante. Le sue storie infatti, oltre a mandarmi in solluchero le cellule neuronali, mi staccano dalla realtà in cui sono immersa, o meglio mi aprono nella mente visioni alternative (e mai banali) della stessa. Leggere Cortázar è come imboccare una strada che, nonostante la presenza di qualche cartello segnaletico, non sai in realtà dove ti porta. È un’avventura mentale, per dirlo in altri termini. Un invito ad osservare i lati più insospettabili del mondo, delle cose e della vita, con un modo di presentarli che non è privo di aspetti divertenti. E neppure privo di senso, di significato. Perché anche questo, a ben vedere, c’è. Magari non è subito così palese, immediato, ma alla fine si scorge qualcosa al di sotto dell’apparente leggerezza delle parole, del loro tono quasi giocoso, un qualcosa che avvince e travolge, a volte anche spiazza.

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Pòlinka, o dell’impossibilità di governare le emozioni

Ritorno a Čechov, di cui ogni tanto leggo o ripesco un racconto… Ve ne propongo uno che mette di nuovo a confronto l’universo maschile con quello femminile, con i loro diversi modi di sentire e interagire, un po’ come accadeva ne Uno scherzetto ma con alcune differenze. In questo caso i sentimenti di fondo traspaiono in modo più evidente sia da una parte che dall’altra, anche se camuffati con grande sforzo. Vorrebbero certamente esplodere ma vengono trattenuti sotto una maschera di finta gaiezza, quella sbandierata dal commesso, ossia dal protagonista maschile del racconto, che più alza la voce per gridare i nomi e i prezzi della merce, più alimenta l’agitazione sua e della povera ragazza piangente. Che, suo malgrado, si sente attratta da un altro giovane ma nello stesso tempo si rivela incapace di assumere una posizione netta e decisa nei confronti del suo nervosissimo interlocutore, per il quale forse prova ancora dei sentimenti, o perlomeno un mix di emozioni contrastanti…

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Portrait of Maria Lvova, Valentin Serov, 1895, fonte wikiart.org

Un racconto bellissimo, in cui risalta al massimo la capacità cechoviana di tratteggiare con una sensibilità tutta moderna – quindi godibile anche per noi lettori di oggi – la difficoltà di due cuori che non riescono assolutamente ad intendersi, destinati pertanto a un’inevitabile sofferenza.
Notate, così, en passant, la punta di perfidia del commesso, che, incapace di accusare il colpo, cerca tra un discorso e l’altro di demolire agli occhi della ragazza l’immagine dell’altro spasimante, e non abbastanza pago, cerca anche di convincerla di non essere all’altezza delle esigenze culturali dello stesso, né delle ambizioni che lo muovono. Giusto per mortificarla un po’, con l’intento evidente di dissuaderla. E notate con quanta sottile arte Čechov porta avanti due conversazioni in parallelo, quella privata e più sommessa che avviene tra i due giovani e quella pubblica e più ostentata che si manifesta nel rapporto con la clientela del negozio, tramite la quale il commesso cerca di dissimulare il più possibile, sotto una vivace rassegna di merletti, piumini e bottoni, non solo l’ansia della fanciulla ma anche il nervosismo che sente crescere in sé.
Una situazione per niente facile da rendere con efficacia in un contesto narrativo, per cui Čechov merita come minimo un doppio applauso! Ma era solo un medico condotto o era anche un fine psicologo, quest’abile scrutatore dell’animo umano?

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