Verso una metamorfosi

Da un po’ di tempo sono in crisi, forse si sarà intuito. Avete presente quella sensazione di stanchezza che diventa via via sempre più pesante e sfibrante, dovuta a troppi pensieri, progetti e problemi che si trascinano da mesi senza valide risoluzioni? Ecco, per questo e altri motivi non riesco a concludere un articolo, nonostante ne abbia molti in gestazione e anche qualcuno a cui basterebbe una sola virgola per essere pubblicato. Ma non ho la forza per aggiungere neppure quella. Quindi me ne resto qui in silenzio, a coltivare l’assenza nel mio piccolo hortus conclusus, che chissà quando potrà dare nuovi frutti e riaprire i cancelli…
La cosa più urgente, per me adesso, è quella di prendermi cura di me stessa, di coccolarmi un po’, di volermi bene, di stare calma e serena. Mi aspetta un mese difficile da affrontare, e voglio cercare di superarlo a testa alta come ho fatto altre volte nel passato, senza cedere alla paura. Nel frattempo, ogni volta che mi sentirò abbastanza serena, passerò a leggervi in punta di piedi, magari senza farmi sentire ma con l’autentico piacere di sempre, perché tanto mi avete dato e continuate a darmi con le vostre poesie, con le vostre letture e belle riflessioni.

Vi lascio in compagnia di Lavinia Meijer, un’arpista olandese di origini coreane; nel video si misura con un famoso brano di Philip Glass, compositore americano di musica minimalista e contemporanea. Un abbraccio e, spero, a risentirci presto.

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Di Cortázar, cioccolato, musica rilassante e altre amenità

Questo è un post zuccheroso e disimpegnato, infiocchettato qua e là di sollecitazioni bonarie, o per meglio dire scherzose, anche se non manca un sottofondo di serietà. Solo per farvi sapere che non sono emigrata su un altro pianeta ma sono sempre qui, semisdraiata languidamente sul mio divano sotto chili di libri, con fogli appuntati sparsi e appiccicati ovunque, anche sui capelli, con i pensieri che divagano dall’amatissimo Heinrich Böll, di cui presto pubblicherò qualcosa (a proposito, chi tra voi ha letto L’angelo tacque, ambientato nella Germania dell’immediato dopoguerra? al solo ricordo mi sento rimescolare dentro), fino al sorprendente (anzi, più che sorprendente) Julio Cortázar, per me ancora tutto da esplorare, in termini di opera omnia, anche se dopo aver letto tra un picco di febbre e l’altro cinque dei suoi racconti mi vedo già costretta ad una resa incondizionata, sedotta senza appello da uno stile che definirei incomparabile. Mi sono anche chiesta come io abbia potuto vivere, fino ad oggi, senza la consapevolezza della sua esistenza, senza avere attinto neppure una goccia dal calderone stratosferico della sua narrativa, e davvero non so cosa rispondermi…
A dire il vero qualche tempo fa una gentile fanciulla, che oltretutto scrive molto bene, mi aveva annunciato che sarebbe stato Cortázar ad agganciarmi, non viceversa, e mai previsione è stata più azzeccata. Come faccio, adesso, a liberarmi da una tale infatuazione? Non me ne libero, lascio invece che mi travolga, mi sommerga, mi spazzi via. Dovevo evidentemente aspettare che uscisse un po’ del cronopio che c’è in me per poter apprezzare il cronopio per eccellenza, vale a dire colui che mi avrebbe aperto le porte a un modo-mondo “diverso” di fare letteratura, lo scrittore Julio Florencio Cortázar Descotte per l’appunto, nato a Bruxelles nel 1914 da genitori argentini e morto a Parigi nel 1984, città dove risiedeva dagli anni ‘50 perché contrario alla politica dittatoriale di Juan Perón. Dovevo passare lo scoglio degli “anta” (ma solo perché sono una sprovveduta) per scoprire uno scrittore il cui talento è stato spesso paragonato a quello di Čechov, nondimeno a quello di Edgar Allan Poe, autore che Cortázar leggeva con particolare ingordigia fin da bambino e che senza dubbio ha contribuito a infondergli il gusto per il magico, il metafisico e talvolta per l’horror, che poi lui mescolava sapientemente alla realtà quotidiana per raccontare il Sudamerica attraverso una prosa elegante e musicale.

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Buon proseguimento

Tutto quello che mi sento di dire è già incluso nei versi di questa splendida canzone. Non serve aggiungere altro, se non augurarvi un anno di pace e serenità interiore, affrancato da ansie, risentimenti e accanimenti inutili. Un anno in cui vivere al meglio il tempo presente senza sprecarlo, senza disperderlo in mille rigagnoli ma concentrandolo, con rinnovato coraggio, nelle cose che stanno veramente a cuore. Quelle che magari si vorrebbero vivere o realizzare da tempo, quelle che sarebbero in grado di riconciliare con se stessi e gli altri, quelle che potrebbero riempire per davvero gli spazi ancora vuoti che ci portiamo dentro e soddisfare anche i sensi… Senza arretrare di fronte al primo ostacolo, senza demoralizzarsi al primo sbaglio, senza colpevolizzarsi per un motivo o l’altro, altrimenti è poi un attimo, ma davvero un attimo, ritrovarsi fra un anno con altri rimpianti per cose desiderate e perse… È un augurio che rivolgo anche a me stessa, colpevole per prima di aver sacrificato più volte l’occasione di mettermi in gioco, di concedermi nuove esperienze. Forse per paura, per inettitudine, per vigliaccheria… Tutte cose che adesso vorrei lasciarmi alle spalle, per andare con sguardo nuovo verso il mio futuro.

Un grande abbraccio a tutti.

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Le donne lo sanno

Un omaggio di Ligabue al mondo femminile, una canzone che senza dubbio conoscerete e avrete sentito più volte, ma avendo scovato proprio ora una versione live diversa dal solito, cantata con maggiore incisività e minor fragore nell’ambito di un contesto teatrale, ve la propongo subito all’istante con l’augurio di proseguire al meglio questa settimana dall’aria quasi autunnale… Oggi è tornato il sole, ma nei giorni scorsi la pioggia si è fatta sentire in modo fresco e piacevole sulla pelle, almeno qui dalle mie parti, nell’estremo e boschivo nord.

Piccola nota aggiuntiva al brano (terzo singolo estratto dall’album Nome e cognome, pubblicato nel 2005), tratta dall’indispensabile wikipedia: pare che Ligabue ammiri le donne per la loro caparbietà, ecletticità e dolcezza nel pensare e nell’agire, e ci riconosce anche la capacità di vedere oltre, di percepire sfumature, umori e stati d’animo con maggiore immediatezza rispetto agli uomini. Così scrive nel commento al testo: Forse bastava che avessi anche solo ripetuto quella frase [Le donne lo sanno] durante tutto il brano. Ammetto semplicemente la superiorità del genere femminile rispetto al nostro e ammiro la loro potenza. E come sembrino frequentare mondi che noi non conosciamo.
In realtà siamo anche consapevoli, noi donne, di non essere sempre così intuitive e versatili, né perennemente risolute, comprensive e pazienti, che giustamente c’è un limite a tutto; però insomma, anche se a volte la magia non ci riesce affatto bene, anche se a volte ci ritroviamo disperate e impotenti, incapaci finanche di muovere un dito, godiamoci lo stesso (e meritatamente) i versi di questa bellissima dedica…


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Un bagno di dolcezza

La rete riserva anche questo genere di emozioni: la possibilità di ascoltare la parte iniziale, appena sussurrata e in versione acustica, di tre bellissimi brani del noto gruppo salentino, già apparsi come inediti nella raccolta Una storia semplice del 2012. Apprezzo da sempre la voce unica e particolare di Giuliano Sangiorgi, capace a mio parere di coinvolgere come poche, e ascoltarlo così, solo voce/chitarra e senza il supporto della band, è un piacere che non ha eguali…

Buon fine settimana a tutti, in compagnia di un clima in verità un po’ bizzarro, deliziosamente incerto tra caldo e freddo ma già carico di profumi inebrianti.

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Christmas Jazz

White Christmas (Bianco Natale) è una canzone celeberrima che ha visto nel tempo innumerevoli interpretazioni (a partire da quella di Bing Crosby, che risale al 1942), ma scommetto che cantata in questo modo non l’avete mai sentita…

Se però preferite un’atmosfera più effervescente, ecco qua Jingle Bells in versione jazz, che acquista un non so che di sofisticato senza perdere nulla della carica briosa. Un applauso meritato anche all’orchestra.

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Fabrizio Moro, tra critica sociale e poesia

Chi mi conosce sa già che in questo blog non parlo solo di libri, a dispetto del nome che gli ho dato, ma svincolo ogni tanto nel campo della musica, delle canzoni. Non perché me ne intenda, tutt’altro, ma per il semplice piacere di condividere qualcosa di bello che ho scoperto di recente o recuperato dal passato. Sono post un po’ così, scritti sull’onda emotiva del momento e che non hanno la pretesa di risultare impeccabili.
Da qualche giorno, ad esempio, sto ascoltando Fabrizio Moro, un cantautore che sembra distinguersi per la qualità dei testi e per la voce un po’ graffiante. Come al solito, vivendo in un mondo a parte, arrivo sempre tardi a questo genere di scoperte, deliziandomi per cose che magari (anzi sicuramente) sono già note ai più. Diversi anni fa, a dire il vero, avevo sentito una sua canzone che parlava di mafia (“Pensa”, del 2007, dedicata alla figure di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino), ma poi l’avevo archiviata lì, in un angolo della mente, senza procedere oltre con le indagini. Negli ultimi giorni l’ho invece ripescata dal web, andando poi alla ricerca di altri testi di questo artista, che via via apparivano sempre più interessanti. Beh, rispetto alle tante canzonette che vanno per la maggiore, di cui non cito titoli né autori perché manco le ascolto e quando capita che le ascolto me le dimentico anche in fretta, questi brani mi sembrano di un certo spessore per i temi trattati, e forse per questo risultano meno popolari rispetto a quelli di chi, giocando con frasi più scontate e banali, pensate per accontentare i gusti di tutti, si ritrova quasi sempre sulla cresta dell’onda.

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Guarda il cieco che spara al mondo / proiettili che volano

Child bimbi guerra Siria
Siria, 2016. Due fratellini di 3 e 4 anni siedono fra le macerie di Aleppo. Come 3,7 milioni di altri bambini siriani, non hanno mai vissuto un giorno di pace. ©UNICEF/ UN013172/Al-Issa

Di canzoni che hanno la guerra come tema di fondo ce ne sono state tante. Di quelle risalenti agli anni ’60-’70, che esprimevano un desiderio di pace e il disagio per la guerra nel Vietnam, diventate poi un inno per intere generazioni, mi vengono in mente Masters of War di Bob Dylan (1963), War pigs dei Black Sabbath (1970), Imagine di John Lennon (1971), solo per fare qualche esempio. Tra quelle degli anni ’80 ricordo invece Brothers In Arms, dei Dire Straits (1985), e l’altrettanto significativa Civil War, dei Guns N’Roses (1991). Se ve ne vengono in mente altre, citatele pure nei commenti.
Nel frattempo vi propongo un brano che, a mio parere, esprime in modo efficace tutta la sofferenza, la rabbia, il dolore straziante di chi si trova, allora come oggi, catapultato in circostanze così drammatiche. Mi riferisco a Child in time, della band hard rock Deep Purple, uscito nel 1970 e diventato in breve tempo il cavallo di battaglia del gruppo nelle performance dal vivo, grazie alle prestazioni vocali del cantante Ian Gillan, a dir poco portentose.
La canzone inizia con un giro di organo Hammond (più sotto trovate il video per ascoltarla, da una ripresa live datata luglio 1970) eseguito dal tastierista Jon Lord, a cui si aggiunge un po’ alla volta la magnifica voce di Gillan, che da inizialmente lenta procede in un crescendo sempre più acuto e drammatizzato… Personalmente trovo fantastico anche il pezzo centrale del brano, valorizzato dalla performance di Ritchie Blackmore, tra i più bravi chitarristi dell’epoca (forse ricorderete il suo celeberrimo riff nel mitico Smoke on the Water). Poi alla fine entra in scena di nuovo Gillan, che spinge la ballata blues verso un altro giro di acuti, ancora più dolorosi e strazianti di quelli precedenti. Nelle sue urla, in quelle urla (che sono da brivido) io ci vedo il dolore delle vittime di ogni guerra e di ogni tempo, non solo di quelle vietnamite.

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