Riconciliazione

Eccomi di nuovo qui, come una rondine che torna al nido, in questo giardinetto abbandonato da mesi. Una rondine a dire il vero un poco sciocca, perché incapace di orientarsi con le stagioni. Il terreno è infatti ormai asciutto, l’erba ingiallita, le foglie cadute da un pezzo. Il verde scomparso dal pollice e da qualsiasi orizzonte. Tutto questo a dispetto delle belle giornate di sole, che hanno prolungato ad oltranza l’estate. Ma se fuori, lungo le strade, c’è uno spettacolo di luci e colori favorito da un’aria ancora tiepida, nel giardinetto in questione proprio no, qui ogni cosa è rimasta nell’ombra ed è quasi appassita, e tentare adesso di rinvigorire il terreno, di riconcimarlo ben bene per rimetterlo in sesto, richiederebbe una forza sovraumana che in realtà non mi appartiene e nella quale non mi riconosco affatto. Meglio allora attendere l’arrivo dell’inverno, che con il suo manto bianco e silenzioso prolungherà i tempi dell’attesa. Forse qualcosa di buono comincerà a ricrescere dalla punta delle radici e avanzerà poi verso l’alto, fino a trovare lo spiraglio adatto…

La luna è vitrea e lieve
ancora, nel vasto tramonto.
Perché non uscire
di qui? Perché non portare
laggiù, nelle strade, la mia
nostalgia dei monti perduti,
tradurla in amore
pel mondo
che amai?

Già troppo soffersero
del mio rancore
le cose: e vivere non si può
a lungo
se silenziosamente piangono
le cose, su noi.

Stasera, stasera,
quando i volti degli uomini
saran macchie d’ombra e non più –
quando le case
al sommo
sole vivranno di luce –
io troverò me stessa
nel vecchio mondo
e profondo
sarà l’abbraccio
delle cose con me.

Riconteremo i fili
che legano i miei occhi
agli occhi illuminati delle vie,
riconteremo i passi
per cui l’anima versa
la sua sete di strade
sopra la buia terra –

Forse le cose
perdoneranno ancora –
forse, facendo
delle gran braccia arco
su me,
pergolati di sogni stenderanno
domani sovra il mio
solitario meriggio.

In questi giorni, come stavo dicendo, ho rimesso finalmente piede in questo blog trascurato e la nostalgia ha preso di colpo il sopravvento, impossibile resistere, ho dovuto per forza darci un colpo di zappa per lasciare almeno un solco, una traccia. Oh, in realtà nulla di che, a ben guardare si tratta di poca cosa: qualche frase sconnessa uscita da una mente ormai atrofizzata (la mia), una poesia malinconica ma non priva di speranza (quella di Antonia Pozzi, così come l’avete appena finita di leggere) e la cover di una splendida canzone di Sia con la quale tento, verso la fine del post, di chiudere il cerchio, e che ho scelto tra tutte le altre per il contesto boschivo che fa da sfondo, anche se il brano originale è ovviamente un’altra cosa. È un grido di aiuto, quello di Sia, lo sapevate? Ma allo stesso tempo è anche un anelito alla sopravvivenza, nato in seguito ad un grave momento di difficoltà che l’aveva spinta sull’orlo del suicidio (la canzone risale al 2003 e fa parte dell’album Color The Small One). Antonia, dal canto suo, aveva provato lo stesso male di vivere, anche se in altra epoca e per ragioni diverse e con esiti purtroppo irrimediabili. La depressione, per quanto se ne sappia oggi qualcosa, si manifesta in modo subdolo e può colpire indistintamente tutti, cambiano magari i tempi e i contesti ma il dolore è sempre quello: un tarlo che rode da dentro, consumando fino all’ultimo ogni briciola di energia vitale che ancora rimane.

Comunque, al di là della malattia vera e propria, con la quale è preferibile non scherzare, penso capiti un po’ a tutti di passare dei periodi di sconforto e vulnerabilità emotiva, a meno che non ci si ritrovi con un pezzo di ferro al posto del cuore. E proprio perché capita a tutti, viene appunto da chiedersi come sia possibile trovare tante difficoltà nel momento esatto in cui è necessario venirsi incontro per capirsi, per riconciliarsi o sostenersi a vicenda, visto che bene o male continuiamo ad oscillare sulla stessa barca… Quella barca-mondo che da sempre condividiamo nei momenti esaltanti come in quelli drammatici. Eppure no, anche quando le cose precipitano c’è sempre qualcuno che ne approfitta o che passa oltre con indifferenza, perché questa, signori miei, è la cosiddetta razza umana, che vive di tante piccole grettezze e di ambizioni a dir poco smisurate, che quando non soddisfatte diventano ancora più deleterie. Non abbiamo scampo, inutile illudersi; dopo duecentomila anni si salvano, su questo pianeta, solo i pachidermi, i delfini, i ratti e i cani, che sono infatti (così dicono) tra le specie più altruistiche per i comportamenti adottati.

Riflettendo sul tema dell’insofferenza manifestata o subita capita anche di notare come l’ipersensibilità di una persona venga a volte considerata dagli altri una seccatura, un’interferenza fastidiosa da sminuire, sottovalutare, cancellare all’istante. Sia mai che con il tuo malumore mi contagi o mi rovini la giornata o, peggio ancora, che mi fai perdere del tempo prezioso! Chissà quante volte è passato anche nella nostra testa un pensiero simile, in un momento in cui eravamo magari di fretta o avevamo già esaurito ogni riserva di pazienza. Inutile nasconderselo, fa parte della natura umana. La perfezione è solo dei santi, e a volte neppure la loro si può onestamente definire tale. Poi, dall’altra parte, ci sono invece quelli che nel momento in cui avvertono un disagio interiore non lo vogliono assolutamente ascoltare, incapaci come sono di fermarsi un attimo a rifletterci sopra, ma questo è un altro discorso ancora… Il mio problema (apro una parentesi) è che a forza di infilare un discorso dentro l’altro rischio di fare notte, in questo giardinetto che non ha neppure due lampioni in croce da accendere. Insomma, i miei discorsi sono come delle matriosche; avete presente quelle bambole di legno russe che quando le apri hanno all’interno un’altra bambola più piccola, poi apri anche quest’ultima e dentro ce n’è un’altra più piccola ancora, poi un’altra ancora, un’altra ancora e così via? Ecco, magari ho delle origini russe e non so neppure di averle, tutto è possibile a questo mondo. Chiusa la parentesi.

Mi preme però precisare che quando parlo dei difetti delle persone, ne parlo sempre in generale. So benissimo che non siamo fatti tutti della stessa pasta, ma è innegabile il fatto che capiti a ciascuno di noi (e io sono la prima a mettermi in fila) di zoppicare con un piede o con l’altro, oltre che di incespicare spesso e volentieri. Vorrei proprio vedere se qualcuno avrebbe la faccia tosta di affermare il contrario. Oh sì, c’è una categoria di individui che è sempre pronta a sorridere con noncuranza dopo aver fatto danni in ogni dove e in tutti i sensi, ma in fondo la colpa è anche nostra, visto che ogni volta li riconfermiamo. Il problema è che siamo una società di individui stressati, talmente presi dalla fatica di sbarcare il lunario da non riuscire più a vedere la voragine che si sta allargando attorno. Anche perché c’è una tendenza pressoché generale a credere alle promesse che giungono dall’alto, spacciate ogni volta come il rimedio per tutti i mali. E che ci sia una coalizione o l’altra alla guida del paese, non è che le cose cambino granché in meglio nel corso degli anni, l’evidenza è sotto gli occhi di tutti. E noi, “povera gente”, per dirlo in termini dostoevskiani, costretti ad arrabattarci alla meglio per assicurarci un minimo di decoro (a proposito, qualcuno ha per caso venti copechi che gli avanzano in una tasca possibilmente non bucata, così da potermeli imprestare?), mentre nel frattempo ogni cosa va a soqquadro, adesso più di prima a causa dei rincari energetici e di una generale scarsità finanziaria, e se alla fine ci resta poco tempo per leccarci le nostre, di ferite, figuriamoci se ce ne avanza per quelle degli altri. Il malessere sociale tende purtroppo a dividere più che a unire, è brutto dirlo ma è così, e quelli lì, quelli che stanno con le loro chiappe seduti in alto, lo sanno benissimo, lo sanno da sempre… e ovviamente ne approfittano.

Tuttavia non fraintendetemi, non volevo andare a parare con il discorso in argomenti poco felici o troppo pesanti, non era nelle mie intenzioni. Tanto meno mi interessa parlare di politica, che ne ho la nausea fino ai capelli. Però ogni tanto, quando scrivo, mi piace fuoriuscire dai limiti prefissati, anche se in questo caso ho forse esagerato un pochino, nel senso che mi sono catapultata di almeno sei metri oltre lo steccato del giardinetto con il quale avevo esordito all’inizio… Lo so, a far bene dovrei rileggere più volte il tutto ed eliminare qualche accento superfluo, così da rendere il flusso meno torrenziale e ancor meno giudicante. Anche perché lo scopo del mio intervento era in fondo soltanto quello di dare una potata ai rami più secchi, una spruzzata d’acqua qua e là, una sbirciata all’edera abbarbicata al tronco che con la sua costante presenza in parte mi consola, e allo stesso tempo approfittare dell’occasione per mandarvi un saluto veloce da ricambiare altrettanto velocemente prima che un colpetto di vento se lo porti via. Ecco, proprio adesso, nel pensare all’edera mi è venuto in mente il colore verde (un altro effetto matrioska?), quello che accomuna molte specie vegetative e non solo; un colore, a pensarci bene, che emana un senso di equilibrio, di armonia e pace, che rilassa e allevia le tensioni. Tra parentesi, il mio colore preferito. E cosa diceva infatti Antonia, in un’altra delle sue bellissime poesie? Lasciava intendere che l’uomo ha sempre tanto da imparare dalla natura, fosse anche un semplice albero (guarda caso, un sempreverde) a fargli da maestro, ma chissà perché – aggiungo io – nel momento del bisogno queste cose poi ce le scordiamo.

Anima, sii come il pino:
che tutto l’inverno distende
nella bianca aria vuota
le sue braccia fiorenti
e non cede, non cede,
nemmeno se il vento,
recandogli da tutti i boschi
il suono di tutte le foglie cadute,
gli sussurra parole d’abbandono;
(….)

Riusciremo allora anche noi a resistere, a non cedere, a passare indenni un altro inverno? A tirare fuori ogni più piccola risorsa interiore per affrontare al meglio le sfide quotidiane che ancora ci aspettano? Diamoci qualche pacca sulle spalle e auguriamocelo.

Scommetto che stavate pensando che il mio discorso fosse finito. Invece no, vi stavo prendendo in giro. Comunque, scherzetti a parte, non potevo tralasciare di aggiungere qualcosa sulle ultime letture prima di ritirarmi nel fondo di una caverna, in rispetto ai tempi del letargo. Letture che mi hanno portata a scorrazzare per qualche mese in territorio russo, forse perché volevo rendermi conto, una volta in più, di quanto fosse meraviglioso questo paese e la sua gente, e nello specifico la tradizione letteraria che si porta alle spalle, nonostante i leader al potere lo abbiano quasi sempre guidato con metodi autoritari e illiberali. Oggi come un tempo, visto che gli attacchi alla libertà di stampa e di espressione sono all’ordine del giorno. Nella Russia di Putin, ormai lo sanno anche i sassi, qualsiasi voce del dissenso viene ignorata dai mass media e fatta tacere, e chi insiste ad opporsi al regime con delle proteste viene perseguitato, minacciato, incarcerato o fatto sparire; questa è la realtà dei fatti. Ma non si può far ricadere sul popolo russo tutte le colpe di un governo camuffato da finta democrazia, anche perché le persone sono tenute all’oscuro di molte cose e plagiate da una propaganda capillare che utilizza ogni mezzo possibile per insinuarsi nella loro testa. Quindi, alla luce di tutto questo, non mi era parsa una gran trovata quella di boicottare nel nostro Paese perfino i seminari dedicati alla letteratura russa, così com’era successo a marzo di quest’anno alla Bicocca di Milano, dove avevano appunto cancellato un corso organizzato da Paolo Nori che, guarda caso, verteva proprio su Dostoevskij, scrittore che a sua volta era stato ostacolato (e condannato perfino a morte) per aver letto in pubblico cose che, secondo l’autorità zarista dell’epoca, non avrebbe dovuto leggere. Per onestà bisogna aggiungere che la Rettrice aveva poi fatto marcia indietro, scusandosi per l’accaduto e dichiarando che l’università è e rimane un luogo di libera manifestazione del pensiero, ma la figuraccia, insomma, un po’ rimane… Lasciamoci però alle spalle questi episodi ormai passati e andiamo avanti, altrimenti facciamo notte.

Dunque, come dicevo un attimo fa, da qualche tempo mi riscopro con i libri di Dostoevskij in mano, e a volte con un occhio rivolto ad altri russi che ho frequentato poco nella mia vita di lettrice, come ad esempio Nikolaj Gogol’, che non a caso lo stesso Dostoevskij ammirava moltissimo. Per dire, è dalle Anime morte di Gogol’ che sono usciti tanti fertili semini che a loro volta si sono piantati nella testa di Dostoevskij per germogliare poi come volevano, dando origine a romanzi quali Il sosia e Povera gente. E Dostoevskij infatti lo aveva detto che loro, i cosiddetti scrittori del realismo socialista, erano tutti usciti dal cappotto di Gogol’. Ad ogni modo, chissà perché – e me lo sto chiedendo proprio in questo momento – dopo aver letto Delitto e castigo e Memorie dal sottosuolo mi ero fermata del tutto, qualche anno fa, chissà perché… Magari perché distratta da altri autori che reclamavano altrettante attenzioni da parte mia. Ma adesso che l’ho ripreso, il mio amato Teodoro Dostoevskij (pare impossibile, ma fino agli anni quaranta era conosciuto dalle nostre parti in questo modo, per via di quel vizio orribile di italianizzare i nomi degli autori stranieri!), non lo mollo più; mi sono infatti deliziata con Le notti bianche, che è una piccola perla nel vero senso del termine, e poi ho seguito con altrettanto piacere la vicenda epistolare di Povera gente, dove ho trovato qua e là molti echi gogoliani, tutti godibilissimi, e poi, ancora, mi sono fatta un giretto nei casinò tedeschi con Il giocatore, ed ogni volta avevo il batticuore quando stava per perdere in un nano secondo tutto quello che aveva vinto sulla breccia dell’onda, mentre adesso mi trovo dalle parti di San Pietroburgo, dopo aver viaggiato in treno seduta accanto a Mýškin… L’idiota non idiota di cui mi sono già innamorata, anche se in realtà, lo confesso, il mio cuore batte per Rogòžin, sedotta come sono dai suoi ardori indomabili. Eh, cosa ci volete fare, mi affascinano da sempre i personaggi problematici, quelli un po’ ossessivi o ossessionati, forse perché da parte mia c’è una tendenza naturale alla calma, che poi assomiglia a quella del mare dopo la tempesta. Adesso ho terminato da poco la parte in cui Mýškin racconta in casa Epančin l’episodio sulla pena di morte, un pezzo talmente bello da meritare di essere incorniciato, chiaramente di ispirazione autobiografica, visto che Dostoevskij era stato allo stesso modo condannato e poi graziato un istante prima dell’esecuzione. Questo è comunque un romanzo di grosso spessore (in tutti i sensi, anche per il numero di pagine) che sfiora o tira in ballo molte tematiche importanti, tutte meritevoli di attenzione, per le quali sarebbe necessario come minimo un articolo di 10.000 battute da dedicare a ciascuna. E sapendo bene quanto io sia capace di essere parca con le parole, è meglio che non mi ci metta neppure…

Il giocatore di Dostoevskij, letto in precedenza, mi torna spesso con insistenza nella mente, forse perché parla di una condizione psicologica estrema che non può fare a meno di rimanere impressa… Ma tutte le opere di questo grande scrittore russo inducono a svariate riflessioni, proprio perché scavano nell’animo umano mettendone a nudo gli aspetti più spregevoli e rivoltanti; e come non ricordare a tale proposito il limite estremo di questa tendenza, rappresentato da quel famoso “uomo del sottosuolo” che ha anticipato di brutto tutte le successive scoperte sull’inconscio, fungendo da apripista a molti lavori di carattere freudiano? Tornando comunque dalle parti de Il giocatore, non posso fare a meno di considerarlo un piccolo capolavoro, forse perché capace di mettere in mostra non solo le debolezze del protagonista, alter ego dell’autore (Dostoevskij era infatti continuamente indebitato per via del suo vizio per il gioco d’azzardo), ma anche quelle degli altri personaggi che gli ruotano attorno, e al contempo capace di far luce sui nostri stessi punti deboli, visto che la tendenza ad esporsi agli eccessi, fossero questi anche solo di natura emotiva, è congenita nella natura umana; inoltre bisogna dire che questo è un romanzo che sorprende, a volte, che strappa anche un sorriso, soprattutto quando entra in scena il personaggio della nonna, chiamata un po’ da tutti baboulinka’, che in russo significa appunto “nonnina” ma che, a dire il vero, risuona come un eufemismo alle orecchie di noi lettori, visto il vigore eccezionale che sfodera ad ogni occasione. Dico sul serio, bisognerebbe dedicare un commento chilometrico solo a questa eccentrica, temeraria e dispotica signora, se lo meriterebbe tutto. Davvero tutto.

Quando avrò finito L’idiota, penso sarà la volta dei Karamazov. Ho già due volumi che mi aspettano nella nuova traduzione di Claudia Zonghetti, che dicono sia bravissima. E infatti lo è, perché leggendo alcuni testi di Anna Politkovskaja da lei tradotti, l’impressione ricavata è più che buona. Comunque, tornando all’amatissimo Teodoro, spero di invogliare gli indecisi a leggerlo, nel caso se lo siano perso per strada. Cominciassi adesso dall’inizio, penso che partirei con Le notti bianche, un romanzo tanto breve quanto estremamente suggestivo, che parla della solitudine di un uomo che si nutre di sogni fino all’incontro fatidico con una donna reale (che non gli cambierà la vita, ma gli farà provare delle emozioni mai vissute prima), e poi andrei avanti con Povera gente, opera prima dell’autore ma non per questo meno valevole di altre, ma anzi dotata di una notevole forza espressiva (e come dimenticare, infatti, a questo proposito, l’episodio del bottone con il filo spezzato e i tentativi del povero impiegatuccio di riacciuffarlo, di riattaccarselo alla giacca nella vana speranza di salvare la faccia davanti a Sua Eccellenza?), fino ad approdare ai romanzi più corposi e noti, come ad esempio Delitto e castigo, che non può fare a meno di lasciare addosso delle impressioni ancora più forti. Certo, bisogna abituarsi con i nomi russi, che sono troppi e difficili da ricordare e ancor più da pronunciare (tra nome, patronimico, cognome ed eventuali diminutivi o vezzeggiativi, il lettore ha ogni volta un bel daffare a distinguere un personaggio dall’altro), ma in questo caso il gioco vale la candela. E magari (perché no?) leggersi in parallelo qualche saggio dedicato all’autore, ad esempio quelli scritti da Paolo Nori (citato prima), che sono piacevolissimi, ricchi di aneddoti curiosi. Nori, per chi non lo sapesse, è laureato in lingua e letteratura russa, è scrittore e docente universitario e ha tradotto e curato diversi autori poco conosciuti dalle nostre parti, quali ad esempio Danil Charms e Venedikt Erofeev. Bravissimo, a mio parere, nell’esporre concetti e fatti letterari in un modo accessibile a tutti, e comunque basta ascoltarlo in qualche video su YouTube per rendersene conto, come ad esempio in questo, dove parla della differenza tra la scrittura di Dostoevskij e quella di Tolstoj, oltre che di tante altre cose interessanti…

Note aggiuntive:

  • La poesia di Antonia Pozzi, che dà titolo al post, è stata scritta il 3 novembre 1933 ed è inclusa nel volume “Parole. Tutte le poesie”, ed. Ancora, pp.282-83, curato da Graziella Bernabò e Onorina Dino
  • La conferenza di Paolo Nori su Fëdor Michajlovič Dostoevskij al link più sopra segnalato si è svolta presso l’Università per Stranieri di Siena il 31 marzo 2022. Merita di essere ascoltata, non solo per il confabulare piacevolissimo di Nori, come sempre ricco di nozioni interessanti, ma anche per la bella (e a mio parere condivisibile) introduzione degli organizzatori.
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20 pensieri su “Riconciliazione

  1. Manca una frase di introduzione al tuo post: “Sarò breve” 🙂
    Hai messo a verbale un sacco di cose vere, o quantomeno, di sensazioni e riflessioni in cui giorno dopo giorno mi sono ritrovato.
    Certo, il Covid (che ancora viaggia, peraltro) e poi la mazzata della guerra con tutte le implicazioni che comporta – hanno prodotto e stanno producendo effetti epocali.
    Saltando qua e là, in tempi non sospetti, avevo iniziato a rileggere Cechov, dopo anni, e non ha finito di entusiasmarmi. È un maestro del racconto.
    Un saluto, un abbraccio, la tarda ora e la pigrizia hanno il sopravvento 🙂

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    1. Più stringata di cosi è quasi impossibile 🙂 E pensa che ho dovuto anche tagliare, tagliare, tagliare…. Forse stare in silenzio per mesi non giova, visto che poi vengo presa dalla smania di compensare l’assenza. Stai rileggendo Čechov? Che attimi di pura delizia!

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    1. Guido, lo voglio scrivere anche qui: GRAZIE per la lunga amicizia virtuale, per le belle chiacchierate di anni, per i tuoi modi sempre così attenti, rispettosi e allo stesso tempo schietti e sinceri. Mi (ci) mancherai.

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  2. Ciao Alessandra, che piacere ritrovarti! In effetti la tua prolungata assenza è direttamente proporzionale alla presenza in parole di oggi…. eh eh…
    Ti leggerò con calma, ma intanto grazie per le riflessioni (ho letto solo fino alla poesia della cara Antonia, ma so già che ci saranno tanti altri spunti) tue personali ma che già sottoscrivo.
    Un caldo abbraccio, visto che le temperature sono finalmente scese….

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  3. Ah, Antonia, piccola grande anima inquieta ❤. “Le notti bianche” sono una lettura imprescindibile per chi ama i sogni (ad occhi aperti e non) e la lettura. Ecco, visto che mi diventi “logorroica”, come hai scritto sopra, prova a romperlo un po’ più spesso questo silenzio, ok? P.S. Bentornata rondinella e no, questo non è affatto un giardinetto: è un grande giardino e anche ben illuminato, sai?

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  4. Direi che sei andata ben oltre lo steccato del tuo giardino lungo un sentiero dove le voci dei personaggi di Dostoevskij ti tengono compagnia.
    Anch’io “rifrequentato” Teodoro nella scorsa primavera durante un viaggio e, tra un aeroporto e l’altro, tiravo fuori Memorie del sottosuolo, sperando che qualcuno mi opponesse la stupida osservazione: Allora sei putiniana?! E, allora. avrei spiegato che la bellezza dell’anima degli scrittori russi niente a che vedere con la triste politica bieca. Ma nessuno mi ha dato l’opportunità di farlo. Tant’è!
    Possibile che abbiano dimenticato Dostoevskij? Oppure non l’abbiano mai conosciuto?! Ripeto: siamo rimasti, ahimè, in pochi a leggere. Grazie di aver rivisitato i suoi capolavori.
    “La tua sete di strada” ti ha portato alla poesia “malinconica ma non priva di speranza” di Antonia e Teodoro. Bene, per Teodoro la grande speranza della salvezza dell’umanità è la donna. Almeno ai suoi tempi, e secondo la sua visione, la figura femminile era capace di redimere l’uomo. Mi chiedo se è ancora vero nel 2022.
    Va’ avanti nel sentiero e facci scoprire e riscoprire con te.
    P.S. La depressione è una malattia curabile.

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  5. Ciao Alessandra e bentornata! Bello sapere che apri il cancelletto e zappetti qua e là, leggi indefessa, e in questi tempi grigi guardi con occhio compassionevole ai difetti umani. I discorsi ti zampillano fuori uno dall’altro come, appunto, delle matriosche – un’invidia per chi a volte fatica a spremersene fuori uno.
    Bene, speriamo che tu ne abbia tenuto qualcuno di riserva e ce lo faccia sentire presto!
    Un caloroso abbraccio 🙂

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  6. Il tuo terreno è e resta vigoroso, anche perché lo curi bene e, a tempo dovuto, gli regali un periodo a maggese.
    Sai cosa, invece? Dall’alto o dalla decrepitezza dei miei anni, sono stufa, davvero, di distinguere una popolazione (ovviamente non i singoli individui) da chi la governa. Possibile, anzi certo, che i dittatori governino senza il consenso dei governati; certamente non governano senza quantomeno la collusione dei governati. Di una buona maggioranza. E’ stato così nel ventennio fascista italiano, è così oggi non importa dove. Vero, è un discorso lungo, che non andrebbe semplificato, ma credo sia così.
    La grande letteratura russa, se vuoi, lo dimostra ampiamente. E bene fai a curarla e proporla con tutta la tua intensità.
    Non ti dico bentornata perché ti ho sempre pensata produttiva (magari a maggese) ma sarebbe entusiasmante sentirti più spesso.
    A presto!

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    1. Ciao Ivana, felice di risentirti, e ti ringrazio per il sostegno amichevole. Senza dubbio il tema della responsabilità collettiva è innegabile, perché un regime (un qualsiasi tipo di regime) non potrebbe restare al potere senza il consenso (o senza l’indifferenza) di una buona fetta della popolazione. Sarebbe però utile capire quanto influisca la propaganda, da una parte, e quanto agisca invece il timore di subire delle ritorsioni. E quindi anche la rassegnazione, per certi versi. Non è facile comprendere a fondo la situazione da semplici osservatori esterni. Oggi ho scovato un articolo che tenta di fare un po’ di luce attraverso uno scritto di Leonid Gozman (”Perché non ci siamo riusciti? Gli errori dell’opposizione russa”), uno psicologo e attivista per i diritti umani che è stato già arrestato due volte per aver condannato pubblicamente la guerra in Ucraina, poi costretto a rifugiarsi all’estero. Nel caso possa interessarti, questo è il link: https://www.lanuovaeuropa.org/societa/2022/11/28/perche-non-ci-siamo-riusciti-gli-errori-dellopposizione-russa/

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  7. Quello che io trovo meraviglioso è che tu abbia avuto quasi il bisogno, o la necessità, di immergerti in alcune pagine della letteratura russa, per recuperare, in un un momento tanto delicato, la bellezza del paese e della sua gente. Mi erano mancati i tuoi post. Un abbraccio.

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  8. Renza

    Cara Alessandra, volevo scriverti da un po’ ma influenza e cose varie mi hanno fatto ritardare. Guido era sempre il primo a risponderti, per quella simpatia che vi univa e che risultava piacevole anche a chi vi leggeva.
    Tra le conseguenze tragiche e penose di questo periodo speventoso, io colloco anche l’ idea che si senta la necessità di spiegare perchè si leggono gli scrittori russi, spesso ucraini, come se ci si dovesse giustificare. Mi sembra un dato preoccupante. Quanto a Dostoevskij, di lui ho letto questa estate ” Memorie dal sottosuolo”, un testo terribile ma eccezionale. Non ho apprezzato, invece, ” L’Idiota” che mi è sembrato poco riuscito dal punto di vista stilistico. Gli altri sono tutti da leggere e rileggere…
    Comunque, anch’ io ho letto molto i russi/ucraini, per opposizione al pensiero corrente e per consolazione. Leggo e rileggo Cechov di cui non mi sazio mai…
    Una abbraccio, cara Alessandra e torna presto con noi, con i tuoi pensieri ampi e liberatori.

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