Riscoprirsi in questi tempi oscuri

C’è in noi un bisogno radicale di riconoscimento che non ha niente a che fare con l’ammirazione, la stima, la fama. È come un bisogno di benedizione, di parentela o almeno di familiarità, di iniziazione superata, di passaggio a stirpe che ti sceglie all’improvviso e ti dà il nome.
Una volta, sono andata a vivere per un mese in una casetta in una foresta di una piccola regione francese. Era un secadou – quelle casine di pietra dove un tempo si seccavano le castagne –, che qualcuno aveva adattato a semplicissima abitazione, ed era circondata da castagni secolari.
Appena arrivata, ho sentito il bisogno di presentarmi agli alberi, almeno ai più anziani e vicini a casa, per chiedere il permesso di restare. Mi sono avvicinata al più vecchio, mi sono inchinata e poi, accostandomi ai rami, gli ho detto che, se per lui e per tutti loro andava bene, sarei rimasta a vivere lì per un mese e che chiedevo la sua protezione. Un ramo si è spostato, con la grazia che solo i vecchi conoscono, e si è posato con le sue foglie proprio sulla mia testa. Non c’era vento. Sono rimasta immobile, impietrita dallo spavento dell’amore che si realizza, dalla risposta. Ho sentito come se un padre grande e sconosciuto, in silenzio, mi mettesse una larga mano sulla testa per benedirmi e riconoscermi. Ho lasciato scendere le lacrime, restando fermissima, finché la persona che era con me è venuta a chiamarmi: allora gli ho fatto segno con il dito sulla bocca per chiedere il nobile silenzio e gli ho indicato il ramo sopra la mia testa. Più tardi gliel’ho raccontato.
Nei giorni successivi, ho guardato l’albero di mattina presto, di pomeriggio e di sera, l’ho salutato dalla finestrina della stanza in cima alla casetta, ma non ho più osato avvicinarlo, se non per una vaga carezza, passando. Non volevo chiedere prove. Ero certa.
Il giorno della partenza, sono tornata a inchinarmi e a salutarlo, la “cosa” si è ripetuta, identica.
Sono stata riconosciuta e benedetta da un castagno molto vecchio. Non potrà mai esserci un riconoscimento pari a questo.

Splendore
c’è splendore oggi
contro il cielo cieco,
gli alberi dormono 
con fierezza,
c’è silenzio
molto largo
lì sotto
dove vive l’acqua.
Chi si inginocchia
nell’essere
è il cane del mondo.

In un tempo dove il tragico è manifesto sembra irriverente parlare di gioia, eppure è proprio questo che fa la gioia, si infila dove è inaspettata, crea bagliori impensabili per chi vuole restare murato nel buio come per una legge di fedeltà alle conseguenze di chi è più offeso dalla vita e dai suoi colpi.
La gioia spunta improvvisa dal corpo, dallo sguardo che improvvisamente ammira uno spiraglio luminoso nel buio, da una parola “sbagliata”, che invece è molto più appropriata di quella corretta, da una nuvola.
E se la riconoscenza alleggerisce il peso della fortuna, la condivisione dà peso alla leggerezza della gioia. Si dice che si può dedicare al Buddha anche il volo di un uccello.
Così, in tempi che falciano, non è vergogna sentire frammenti di gioia e dedicarli a chi soffre, anche a noi certamente, ma è difficile, anche se non impossibile, che un postino scriva a se stesso. A dire il vero, certe volte io mi scrivo delle mail in cui racconto a me stessa come sto, mi faccio auguri, mi ravvivo e mi fiancheggio. Spesso iniziano con: «Cara Chandra, in questo momento…», e mi chiariscono di che momento si tratti, come farebbe una nonna con una nipotina a cui vuole spiegare il dolore.
Comunque, un postino diligente porta messaggi agli altri; essendo poi un postino invisibile e anonimo non si addentra mai a controllare che siano arrivati, se lo augura e basta.
Di solito, un momento di bellezza sa sempre a chi vuole essere dedicato, altre volte ci vuole una ricognizione precisa e altre ancora si va un po’ in cerca di immagini o di suoni e poi in un soffio solo si dice: «Ti dedico questa farfalla che si finge foglia». «Ti dedico questo merlo che prova la voce arrugginita dalla pioggia».
Fa bene portare l’attenzione alla gioia, che si nasconde discretamente quasi in ogni momento, e fa bene spedirla a qualcuno che non lo sa ma ne ha bisogno.

È foglia
che sa
morire danzando
è minuscolissimo insetto
che esplora
immensi spazi bianchi
tra le righe del libro
è cielo nudo
che non si lascia
scuotere,
è questo
oggi che salva,
custodisce l'aria vuota
dell'anima
nutre i passi
nonostante tutto
e il suo orrore.

Ero al monastero quando ci fu lo tsunami. La scuola di Buddhismo a cui appartengo è quella thailandese della Foresta. Molti thailandesi venivano al monastero, ognuno con qualche storia terribile da raccontare. Come i vecchi e i bambini che scappavano troppo lentamente e venivano travolti dalle onde. L’abate ascoltava in silenzio, poi ripeteva: «Che grande opportunità di risveglio!»
Ecco la compassione, che non è consolazione né pietà: è accompagnare (non spingere) al bordo del baratro e dire: «Senti, senti cosa dice».
Ora, in questo tempo tragico, mi dico: «Fidati del non conoscere. Che grande opportunità di risveglio hai». E sento che non ho fiducia nel cambiamento generale, ma mi fido dell’orizzonte.
L’orizzonte si sposta sempre, è umano, creato dalla vita e dalla vista umana; ma non solo, anche tanti miti e storie e cosmologie sono nati dall’orizzonte. L’orizzonte è mondo e oltremondo, mi fido perché è nomade, perché è il luogo dei sogni, degli sguardi che non vogliono afferrare, perché lì scompare il sole e ne appare un altro il mattino dopo.
Perché lí sorge la luna a viso aperto, e poi scompare a fasi, gli a capo lunari, i morsi del buio che ti mangia a bocconi e poi ti fa tornare intera per essere di nuovo divorata e di nuovo fatta intera. Questioni di luce e di ombra che l’orizzonte tiene insieme.

Piegare le ali
distendere le ali
sprimacciarsi
becchettare
buttarsi all’aria
posarsi
mettere il capo sotto l’ala
abbandonarsi
al governo del vento
contrastare l’ora del buio
con stracci di voce
nell’aria blu.
Farsi un nido
ramo su ramo
filo per filo
abbandonarlo
migrare
tornare
fissare un punto in aria
chinare il capo
aprire il becco
aspirare
il cielo
disobbedire agli angeli
e agli astronauti
farsi terra e polvere
giú giú
restituirsi
a vermi erba e assenza
di gravità:
leggero leggerissimo
chi cade.

Chandra Livia Candiani non avrebbe bisogno di commenti. Aggiungere qualcosa di mio a queste sue riflessioni così meditate e profonde, che invitano ad una maggiore consapevolezza e a quell’unione mente-cuore di cui oggi si è quasi persa la memoria, sarebbe cosa inutile e superflua.
Mi limito quindi a dire che è estremamente proficuo, oltre che piacevolissimo, perdersi nelle sue pagine, perché le sue parole hanno l’effetto di lenire, dissetare, di mitigare ogni possibile asprezza, capaci come sono di toccare le corde giuste per farle vibrare. Lasciano il segno, spingono a procedere nella lettura senza alzare gli occhi dal testo. Si intrufolano di soppiatto nei recessi del cuore e da lì ci accarezzano, ci rifocillano anche a distanza di giorni, settimane e mesi, spronandoci non solo a rispecchiarci, a riconoscerci nel loro contenuto ma anche a reagire, a farci e a sentirci “più vivi”. Magari non ce ne accorgiamo subito, ma da una pagina all’altra un non so che di sottile si sedimenta comunque nella nostra coscienza e lì poi ci resta, operando in sordina per qualche tempo finché non ne avvertiamo l’effetto salutare.


Quello di Chandra è un invito all’ascolto di sé, degli altri, del vasto mondo in cui ci troviamo immersi che tutto contiene e nulla esclude, quindi un invito – per dirlo con le sue parole – alla pratica della meraviglia, ossia a «guardarsi attorno e lasciar andare il concetto di albero, strada, casa, mare e guardare con sguardo che ignora il risaputo e vede ora». Come fosse quasi la prima volta. Una pratica, questa, che «cura anche il cuore più ferito della terra» perché, anche solo osservando un fazzoletto di prato, «si apre un universo minimo. Infinite vicende, mutamenti, arrivi, partenze, forme sempre più piccole man mano che lo sguardo si limita a vedere». In sostanza, si tratta di imparare ad entrare in risonanza con tutto ciò che esiste attraverso uno sguardo di tipo inclusivo e non esclusivo, uno sguardo capace di abbracciare ogni cosa e di spaziare oltre i limiti del consueto. «Esercitare la meraviglia cura il cuore malato che ha potuto esercitare solo la paura».
Al contempo, il suo è pure un invito alla pratica della compassione, che per partire con il piede giusto deve per prima cosa essere rivolta alla propria persona. Nel senso che non è possibile capire davvero il dolore degli altri se prima non si è imparato a volersi bene e a comprendere il proprio, di dolore, perdonandosi anche gli errori, le eventuali mancanze, i passi falsi… Condizione necessaria, questa, per ogni possibile nuovo inizio, altrimenti non si va da nessuna parte. Senza fretta, un passo dopo l’altro lungo la via dell’accettazione dei propri limiti. Cadendo e rialzandosi più volte (fatto inevitabile, purtroppo tocca farci il callo), ma ricordandosi di respirare e di sentirsi sempre vivi. Compassione che, nel senso espresso dal buddhismo, non è tanto da intendersi in termini di consolazione o pietà, quanto in virtù di un ascolto attento e partecipe di sé o dell’altro. È un aprirsi con delicatezza e totale disarmo per arrivare a comprendersi ogni giorno un pezzettino di più, anche (ma non solo) attraverso l’esperienza del dolore. Perché questo, qualunque sia il motivo che lo genera, ha sempre qualcosa da insegnare, anche se il più delle volte sbuffiamo, scalpitiamo, ci lamentiamo della nostra situazione e ci rifiutiamo di far tesoro dell’esperienza negativa che stiamo vivendo. Dimenticandoci che il timore del buio lo si può vincere non accendendo di colpo la luce ma imparando a sostare nella luce stessa che dal buio promana.


Percorrendo l’opera di Chandra Candiani, dalle raccolte poetiche fino ai vari saggi, che poi sono anch’essi delle vere e proprie espressioni di arte poetica, si percepisce ovviamente l’influsso delle discipline orientali, ma mai in modo ingombrante o fastidiosamente dogmatico. Le sue parole, infatti, sempre chiare e illuminanti, anche quando si agganciano a citazioni filosofiche o letterarie, ad aneddoti di tradizione buddhista o a frammenti di carattere autobiografico (non privi di zone d’ombra, così come non sono privi di episodi luminosi) possono essere di ispirazione a tutti, anche, e forse in modo particolare, a chi non è avvezzo all’ascolto interiore.
In definitiva, quello di Chandra è un invito a riscoprirsi per entrare in una dimensione di maggiore sintonia con sé stessi, con il mondo là fuori e con i tempi in cui ci si trova catapultati, che bene o male hanno sempre qualcosa da insegnare anche quando fanno sobbalzare lungo sentieri accidentati.
Il mio, molto più semplicemente, è un invito a leggerla.


  • Le prose poetiche sono tratte dal volume “Questo immenso non sapere, Conversazioni con alberi, animali e il cuore umano”, Einaudi 2021 (nell’ordine: pp. 65, 69-70, 78-79, 67-68)
  • Le poesie fanno parte della raccolta “Fatti vivo”, Einaudi 2017 (pp. 55, 54, 138)
  • Le foto inserite nell’articolo sono state fatte da me: nella prima, una fila di poderosi alberi di castagno in località Drena, nella seconda una recente esplosione di gladioli nei boschi attorno a Tenno, il tutto nell’incantevole e sempre verde Trentino. Ah sì, ci sono anche statuine del Buddha collocate qua e là tra il fogliame, che, manco a farlo apposta, sono in tema con l’argomento trattato…
  • Segnalo un video bellissimo (qui), dove Chandra parla della sua arte poetica con una voce da bambina che stupisce e incanta… Una voce che in realtà è un atto di accusa perché nasce da un’infanzia molto sofferta, come ha spiegato lei stessa in un’intervista. Comunque sia, quest’autrice riesce a toccare profondità inaudite con una semplicità impressionante, senza alcuna presunzione e senza tanti giri di parole. Vale la pena ascoltarla e, se è il caso, anche commuoversi.
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6 pensieri su “Riscoprirsi in questi tempi oscuri

  1. Ciao, Alessandra.
    Come sempre, ti sei impegnata, non poco, e hai scelto un’autrice non comune, comunque non facile. Un post che dovrebbe indurre a molte riflessioni. Dove il confine tra letteratura e il quotidiano e il mestiere di vivere è labile.
    Ciao, ciao, alla prossima 🙂

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  2. “Ecco la compassione, che non è consolazione né pietà: è accompagnare (non spingere) al bordo del baratro e dire: «Senti, senti cosa dice».”
    Non è la prima volta che scrivi di lei… O sbaglio!? Trovo sublimi le sue aperture al mondo, la sua serenità, la sua attesa della morte con la consapevolezza di una cosa da accogliere con meraviglia (dal bellissimo video che hai postato). Certo l’esperienza del buddismo le dà uno sguardo più attento e calmo. Fa quasi ritornare bambini, non solo per la sua voce, ma per la sua capacità di meravigliarsi. È una fanciullina questa Chandra, una fanciullina che ha paura dell’estinzione delle parole.. Ma non ha paura del buio, perché anche il buio è abitato da creature meravigliose.

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  3. Sì, ha ragione l’autrice quando parla di età e dice che infanzia e vecchiaia consentono di lasciare andare il controllo della mente, e finalmente si possono dire le cose come ci vengono. Non conoscevo questa scrittrice, ma forse è questo il momento giusto per me 🙂

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