
Un libro bello, veramente bello. Strutturato in modo insolito e originale. Non si potrebbe neppure definire un romanzo, visto che mescola degli eventi storici, in parte abbelliti dalla fantasia, con esperienze e riflessioni di carattere personale sul tema del lutto, della perdita della persona amata, al punto che all’inizio si presenta come un saggio e alla fine diventa un memoriale. Anzi, per essere più precisi è una mescolanza tra saggio, racconto inventato e memoria autobiografica, con fatti e circostanze che si snodano in tre capitoli in apparenza scollegati che in realtà vanno a formare un discorso unico.
Il libro segue infatti un movimento ben preciso, che partendo dalla conquista esaltante del cielo da parte dei primi pionieri dell’aria (Il peccato dell’altezza) si conclude con uno schianto doloroso al suolo (Perdita di profondità), non senza aver prima attraversato una fase intermedia (Con i piedi per terra), dove le illusioni fanno i conti con la realtà nell’attesa della botta conclusiva.
All’inizio, aspettandosi un racconto, si rimane un po’ perplessi nel leggere la cronistoria delle imprese aeronautiche finanziate dal governo britannico sul finire del XIX secolo, dove tra i pionieri dell’aria più famosi spicca la figura di Félix Tournachon, meglio conosciuto come Nadar, che fu anche fotografo, giornalista, caricaturista, oltre che inventore e depositario di svariati brevetti. Questo poliedrico personaggio passò anche alla storia per aver costruito Le Géant, uno dei palloni ad aria calda più giganteschi del mondo, che però non ebbe un esordio tanto felice, visto che precipitò al secondo decollo lasciando miracolosamente incolume l’equipaggio. La cosa divertente, se vogliamo, è che la notizia dell’impresa ispirò a Jules Verne il romanzo “Cinque settimane in pallone” (1863), mentre lo stesso Nadar, per nulla intimorito dall’imprevisto, aggiustò l’aerostato per rituffarsi senza indugi nel piacere del volo.
L’obiettivo dell’autore si sposta poi su Fred Burnaby, un colonello della Guardia Reale inglese appassionato di viaggi ed esplorazioni, a cui fa vivere una fantasiosa e improbabile relazione con l’attrice Sarah Bernhardt, attratta allo stesso modo dall’ebbrezza dell’altitudine, anche perché rispecchiava la sua visione libera ed emancipata della vita. Tre personaggi del passato accomunati dunque dal desiderio di librarsi nel cielo, di innalzarsi a bordo di una cesta appesa a un pallone per affidarsi a un equilibrio precario di pesi e correnti; una condizione, questa, che ben rappresenta in senso metaforico quella dose di imprevedibilità che sta sempre alla base di ogni storia d’amore. Ed è qui infatti che il discorso si fa interessante, perché il volo aerostatico, di cui si parla con dovizie di dettagli storici e aneddotici nella prima parte, si rivela ben presto un pretesto per parlare dell’amore, che allo stesso modo di una mongolfiera può elevare le persone ad altezze vertiginose, sempre però con il rischio di farle anche precipitare.
Barnes riflette anche sul fatto che in amore, così come in altri campi della vita, spesso si tratta di mettere insieme due persone (o due cose) che insieme non sono mai state; a volte funziona e a volte no, qualche volta il mondo cambia e altre volte no. Ci provò ad esempio Pilâtre de Rozier, il primo uomo a realizzare un’ascesa in aerostato, quando nella speranza di guadagnare una maggiore spinta ascensionale decise di aggiungere un pallone a idrogeno a quello già presente ad aria calda. Decollò nel 1785 da Pas-de-Calais, con venti che parevano favorevoli, ma prima di raggiungere le coste prese fuoco e precipitò. E ci provò anche il già citato Nadar, quando nel 1858, volando a bordo della mongolfiera, scattò le prime istantanee dall’alto della città di Parigi, riuscendo così a mettere insieme, in questo caso con successo, la “verità” della fotografia con il “prodigio” dell’aeronautica. Grazie a queste imprese il peccato dell’altezza, fino ad allora visto come incursione sacrilega nello spazio celeste riservato a Dio, acquistava finalmente un aspetto meno inquietante e più umano, promotore di un progresso tecnico-scientifico che non intendeva più porsi dei limiti.
Tornando alla questione dell’amore, il risultato non cambia poi tanto. Anche le relazioni sono infatti soggette, come i voli in aerostato, al potere dei venti e delle condizioni atmosferiche. Se la corrente è buona magari si riesce a prendere quota, procedendo senza problemi fino alla meta. Se invece c’è un vento contrario è un attimo ritrovarsi sconvolti e disorientati, costretti a ritornare con i piedi per terra se non addirittura a precipitare. Perché anche nel campo affettivo, quando si tratta di mettere insieme due persone che insieme non sono mai state, a volte funziona e a volte no. Come nella storia fantasticata tra il colonello Burnaby e La divina, giocata sul filo di una passione tanto esaltante quanto effimera, o come in quella reale tra Félix Tournachon e la moglie Ernestine, che seppure diversi costituivano una coppia stabile e devota.
Questo è un libro che parla quindi di voli in quota e a rasoterra, di salite e discese, del desiderio di conquistare nuovi spazi liberandosi da limiti e zavorre, ma anche di traiettorie sbagliate, di tentativi falliti, di cadute rovinose. Di quanto sia facile scendere bruscamente di livello se non si studia bene la direzione dei venti, se non si raggiunge in tempo una corrente favorevole. Parla della necessità di tornare con i piedi per terra dopo aver ceduto alla tentazione di un volo troppo azzardato. E se non volete rinunciare al gusto di scoprire per conto vostro le interessanti riflessioni raccolte nella parte finale del libro, interrompete qui ed ora la vostra lettura. Perché è proprio in queste pagine, così intense e toccanti, che tutta l’attenzione viene posta su quell’istante in cui la sorte (o Dio, o chi per lui) impone uno strappo brutale a due persone che, messe insieme, funzionavano alla grande. Come appunto è accaduto all’autore stesso, quando nel 2008 un cancro non diagnosticato in tempo l’ha privato all’improvviso della moglie, dopo trent’anni di vita passata insieme. E Barnes, essendo agnostico, non ha neppure la consolazione di una vita ultraterrena, giacché è convinto che quando arriva la fine di una cosa – di una qualsiasi cosa – sia sempre, soltanto l’universo che fa il suo mestiere, nient’altro.

Nella terza parte del libro risuonano quindi le note dolenti della perdita coniugale, dove amore e morte si alimentano della stessa tensione che c’era tra l’elevarsi in aria e il rischio di precipitare. Qui è l’autore stesso che deve riportare bruscamente i piedi per terra, costretto a sopravvivere alla tempesta che ha distrutto in un attimo l’involucro del suo pallone, svuotandolo di tutti i sogni, le idee e i progetti che condivideva con la moglie.
Siamo creature destinate a vivere con i piedi per terra, riflette Barnes, e forse proprio per questo aspiriamo sempre ad elevarci. Alcuni di noi lo fanno con l’arte, altri con la religione, altri ancora con l’amore. Ma se è vero che possiamo elevarci, allo stesso modo rischiamo anche di precipitare. E gli atterraggi morbidi purtroppo non esistono, specialmente nel caso in cui l’affetto era autentico. Perché quando capita, per una ragione o per l’altra, che una delle due persone viene meno, «ciò che viene meno è più della somma di ciò che c’era. In termini matematici forse non è possibile; ma in termini sentimentali, lo è.»
Ogni storia d’amore è quindi potenzialmente una storia di sofferenza, destinata ad alternarsi tra picchi di felicità e cadute nello sconforto. E allo stesso modo del volo l’amore è anche sfida alla divinità, un tentativo di «raggiungere gli dei» da parte di creature «destinate al piano orizzontale». É affidarsi a un equilibrio precario di pesi e correnti, dove l’ascesa, per quanto splendida ed elettrizzante, può rivelarsi anche pericolosa. Perché quando perdi la persona amata…
Ti senti come se fossi precipitato da un’altezza di qualche centinaio di piedi, senza mai perdere i sensi, e fossi atterrato in un’aiuola di rose con tale violenza da ficcarti a terra fino alle ginocchia, mentre lo shock dell’impatto ti ha spappolato gli organi interni scaraventandoli fuori dal corpo (pag.79)
Questo è quello che si prova nel momento del lutto, e gli amici, i parenti e gli altri in generale non possono assolutamente capirlo, a meno che non abbiano provato la stessa dolorosa esperienza. Così come non serve a niente che continuino a ripeterti con insistenza di superare il dolore, di ritornare in carreggiata, come se la normalità che cercano a tutti i costi di importi servisse in realtà a cancellare dalla loro mente l’idea della morte, o perlomeno mantenerla a debita distanza.
Eppure, riflette Barnes, nonostante il rischio della sofferenza non possiamo fare a meno di cercarlo l’amore, perché ci innalza dalla nostra natura delimitata e terrena, ci permette di vedere le cose da un’altra prospettiva, come era accaduto nell’incontro tra fotografia e aeronautica (verità e prodigio), dove le immagini catturate dall’alto restituivano agli uomini una visione completamente diversa del mondo.
Quella dell’autore è una riflessione sul dolore molto profonda e sincera, che per quanto obiettiva non teme di affrontare anche le zone più vulnerabili della coscienza, e proprio per questo non si può fare a meno di apprezzarla. Barnes si interroga infatti sul senso del lutto, sulla durata del dolore, sul peso del solitudine, sulla fatica di ricostruirsi una nuova esistenza. Confessa di aver sognato la moglie per lungo tempo e di piangerla ancora oggi senza vergognarsi, e poi si chiede se per elaborare l’assenza bisogna imparare a ricordare oppure saper dimenticare, se bisogna stare fermi o cercare di avanzare. Arriva a citare anche la Sehnsucht, che è una parola del pensiero romantico tedesco con la quale si tenta di esprimere quella forma particolare di struggimento che si sente dopo essere stati privati della persona amata. Quell’inconsolabile desiderio per qualcosa o qualcuno che non si può raggiungere. «Il fatto è che la vita è di una precisione assoluta», scrive Barnes, e quindi «si soffre nell’esatta misura di quanto vale la perdita, perciò si finisce per affezionarsi al dolore.» Ma poi arriva anche a chiedersi, in modo direi molto onesto, fino a che punto sia la persona amata a mancarti o non invece, più egoisticamente, la visione della vita futura che progettavi con lei. Anche se poi aggiunge, in modo altrettanto schietto, che è la vita stessa ad aver perso, con la morte di sua moglie, qualcosa di estremamente bello e importante. E questa è una delle più belle dichiarazioni d’amore che abbia mai avuto occasione di leggere in un libro:
C’è chi pensa che il dolore sia una forma di furioso ancorché giustificabile vittimismo; chi lo considera semplicemente la proiezione di sé nell’occhio della morte; altri dichiarano che sono i sopravvissuti quelli da compatire, perché a loro tocca attraversare la sofferenza, mentre l’amato non può più soffrire. Simili approcci tentano di gestire il dolore minimizzandolo, e fanno la stessa cosa con la morte. É vero, una parte di dolore la provo per me stesso – guarda che cosa ho perso, guarda di quanto si è ridotta la mia vita -, ma di più, molto di più e fin dal primo momento, sono addolorato per lei: guarda che cosa ha perso, ora che ha perso la vita. Il corpo, lo spirito; la sua radiosa curiosità per la vita. Certe volte sembra quasi che la parte veramente in lutto, quella di noi che ha subìto la perdita più grave, sia stata proprio la vita, ora che non può più contare sulla radiosa curiosità di lei. (pag. 80)
Alla fine l’accento viene posto sulla pena di chi resta, sulle difficoltà nell’adattarsi a un mondo improvvisamente vuoto dove ogni cosa deve ripartire da zero. Sulla difficoltà di mettersi anche in relazione con i conoscenti di sempre, affrontando di malavoglia le loro reazioni imbarazzate. Sulla necessità di lottare tra la tentazione del suicidio e la decisione di continuare a vivere per estendere nel tempo la memoria del defunto. Perché ciò che può salvare da tanto dolore, secondo l’autore, in fondo è solo il ricordo. Se lui ancora oggi parla con sua moglie, se le rivolge spesso delle attenzioni come se fosse ancora viva, non è per il rifiuto di superare il lutto ma per la premura di fissare nella memoria tutto ciò di bello che c’era stato nel loro rapporto, rinnovandone ogni giorno il linguaggio privato e perduto. A noi è preclusa la possibilità di scendere agli Inferi per recuperare la persona amata, come accade ad Orfeo, e quindi non ci rimane che riportarla indietro in modo diverso, servendoci del sogno e della memoria. E anche se i ricordi, come vecchie istantanee di momenti felici, finiscono per sembrare «più come fotografie di altre fotografie, che non della vita stessa», è comunque attraverso di essi che il discorso amoroso non si esaurisce e non si placa, nell’attesa di un vento favorevole che possa di nuovo riportare in quota.
Molto interessante. Non conoscevo né l’autore, né il libro. Interessante questa sorta di trittico in cui la vita viene presentata nella sua inevitabile parabola. Struggente l’ultima parte, il lutto e la memoria, così come l’idea che la vita proceda con esattezza, dove amore e dolore sono misurati e dosati con precisione.
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Sì, ci sono delle frasi che grondano di bellezza. Come quella che ti ha colpito, ma non è l’unica, dove l’autore spiega che quando viene meno un amore, “ciò che viene meno è più della somma di ciò che c’era”. E si soffre sempre nell’esatta misura di quanto vale la perdita. Ed è vero, assolutamente vero.
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Ho avuto modo di conoscere Nadar lo scorso anno quando ho aiutato nella correzione di bozze una laureanda su una tesi proprio su questo argomento. Storia affascinante che ti fa pensare a quanta genialità e follia ci fosse il secolo scorso.
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Credo che la genialità abbia bisogno di un pizzico di follia, altrimenti verrebbe meno quello slancio che permette di andare oltre. Oltre i limiti, oltre le paure, oltre le convenzioni comuni, fino a scoprire qualcosa di completamente diverso. Di genialità e follia ce ne sarebbe bisogno anche oggi, naturalmente in termini costruttivi.
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Non meravigliarti se tra l’eccellenza di tante frasi dell’autore da te estrapolate, mi viene da aggiungerne una che è tua: “l’universo che fa il suo mestiere”.
Sintesi che centra il tutto di ogni tutto. Conclusione cui sono pervenuto e che mi sembra di percepire in ogni campo. Dall’amore, ma anche alla politica, economia e dovunque. Al di là dei dettagli, se si va a monte, è sempre l’universo che fa il suo mestiere. Legge che presiede ogni cosa.
Tornando al libro in questione, e alla tua recensione, come sempre maiuscola, mi viene da porre un quesito. Salvo il giudizio positivo sull’opera presa nel suo complesso e salvi i suoi messaggi – la parte aerostatica peraltro particolareggiata di dettagli, era un giro necessario per arrivare poi alle parti-clou? D’accordo che esplicita, rende più palpabile il clou, ma perchè se devo andare a Roma, passo da Mosca? Forse l’autore cercava un’idea: L’IDEA che rende l’opera simpatica e creativa? azzardo il backstage…
Ma forse sono troppo fiscale in un campo dove non ci sono rocce mentre il suo bello è il vento,
Non è una critica:è cogito, come diceva quel tale.
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Quella dell’universo che fa il suo mestiere è una considerazione di Barnes, mi sembra di averlo specificato nell’articolo. Per quanto mi riguarda penso invece che la morte fisica non sia la fine di tutto; non riesco a concepire una visione della vita che si limiti solo al piano materiale, anche se la mia fede talvolta è subissata dai dubbi. Una condizione poco invidiabile la mia, perché sarebbe meglio credere del tutto o non credere affatto, e non rimanere sempre a metà strada. Per quanto riguarda l’introduzione aerostatica, l’autore ha spiegato in un’intervista di aver sentito la necessità di inserire il lutto in una sorta di impalcatura, altrimenti il suo sarebbe stato solo un grido di dolore. E a suo parere l’incontro tra fotografia e aeronautica rappresentava in modo efficace quella miscela di verità/prodigio che sta anche alla base della chimica dell’amore.
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Penso che anche i Santi più al di sopra di ogni sospetto abbiano avuto dei dubbi nel corso della loro Fede. Dio è maestro a dare prova della propria assenza, o meglio, a mettere alla prova.
Quindi, penso che sia umano e ineluttabile il metà strada da te citato.
Certo che questo anelito comunque a un Cielo e a un tutto di conseguenza, e presente in ogni epoca e civiltà o mondi anche primitivi, proprio perchè l’essere umano è limitato ma aspira, mi fa pensare a una realtà superiore possibile esistente.
L’essere umano non potrebbe altrimenti nemmeno immaginarsela.
Quanto all’autore, col pudore di non volersi limitare a un grido di dolore, gli è andata bene con l’editore (l’editor, anzi, il lettore di prima istanza). Perchè è un attimo che questi signori usino (nei casi migliori, quando non rigettino al mittente) le forbici a doppio, triplo taglio.
Ma ancora una volta lo dico per scherzare, scherzare perchè no?
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Mi pare di capire che si tratti di un libro molto particolare: mi incuriosisce molto la prima parte, con questa rassegna di voli celebri, meno quella personale, perché preferisco leggere le narrazioni rispetto alle lunghe riflessioni, sebbene il modo in cui riporti quanto scrive Barnes mi trasmette dei pensieri molto importanti e validi. Ora sto avvicinando il Pavese de Il mestiere di vivere, che è proprio improntato a considerazioni personali ed esistenziali, magari potrebbe essere una buona palestra per prepararmi a questo originale Barnes!
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Con Pavese vai sul sicuro, sarà una palestra più che ottima. Il libro che hai citato vorrei tanto leggerlo anch’io, ma prima mi butterò sulle sue poesie.
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Il tema del lutto. Importante e difficile da affrontare. Lo hai fatto molto bene e mi hai invogliato a pensarci. Leggerò sicuramente questo libro, e questo autore che non conosco.
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Wow! Mi hai convinta, lo leggerò!
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Come sempre mi incanti! Sei bravissima, sai cogliere l’anima dei libri, quel misterioso movente che ha indotto l’autore a scrivere per gli altri. Julian Barnes è uno dei più eminenti esempi di letteratura postmoderna, per questo la sua partecipazione alle storie che scrive è sempre in prima persona, irrompe sulla scena quasi a voler dire al lettore che solo lui può scegliere il finale migliore per la storia raccontata.
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Grazie Elisabetta 🙂 Adesso di Barnes sto leggendo “Il senso di una fine”, dove in effetti la vicenda è narrata in prima persona. Non credo sia una scelta tanto facile da gestire rispetto alla terza persona, ma senza dubbio ha l’effetto di coinvolgere maggiormente il lettore, perché lo fa sentire partecipe dei pensieri e delle emozioni del protagonista.
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Ho avuto modo di apprezzare Barnes grazie a Il senso di una fine, ho letto da qualche parte che qui si cita Tabucchi, quindi già solo per questo la mia curiosità è amplificata.
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Sì, Barnes fa spesso riferimenti ad opere che hanno trattato la tematica del distacco, del lutto e della perdita affettiva, e tra le tante cita anche il personaggio di Pereira, che aveva l’abitudine di parlare con il ritratto della moglie morta. La stessa cosa è accaduta a Barnes dopo la perdita della moglie, perché si ritrovava spesso a parlare da solo, anche a voce alta, come se lei fosse ancora presente accanto a lui, ricordando fatti e abitudini trascorsi assieme. Ho finito di leggere anche Il senso di una fine, di cui un giorno parlerò nel blog, però ho trovato molto più bello Livelli di vita, perché è riuscito a toccarmi nel profondo. Barnes, comunque, scrive veramente da dio.
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Volevo “attaccare” Barnes da tempo e credo proprio che partirò da questo inconsueto volume. I temi di cui parla mi attirano, soprattutto le parti relative alle riflessioni sul lutto, sul dolore. Lo metto in lista. Complimenti per la tua consueta perizia.
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