
Un’altra bella raccolta di Mark Strand, poeta della disillusione e del paradosso, pubblicata qualche anno fa da Mondadori e tradotta magistralmente da Damiano Abeni. Sono pagine, anche queste, caratterizzate da meditazioni in versi sul senso della vita, del destino, della fine e della morte, sempre in bilico tra un tono desolato e ironico.
Com’è nello stile del poeta, anche qui si può gustare quella tipica alternanza tra pura invenzione e apertura al reale, tra una visione onirica e una più concreta della vita, che mai pretende di dare delle risposte alle inquietudini umane. Tutto rimane come sempre in sospeso, in un clima quasi rarefatto, disponibile a varie interpretazioni.
Il figlio entra nella camera della madre
e sta in piedi accanto al letto dov’è sdraiata la madre.
Il figlio crede che lei gli voglia dire
quello che lui brama sentire – che lui è il suo bimbo,
il suo bimbo per sempre. Il figlio si china a baciare
le labbra della madre, ma le labbra sono fredde.
La sepoltura dei sentimenti è cominciata. Il figlio
tocca le mani della madre per l’ultima volta,
poi si volta e vede il volto pieno della luna.
Una luce di cenere cade sul pavimento.
Se la luna potesse parlare, cosa direbbe?
Se la luna potesse parlare non direbbe niente.
(Madre e figlio, pag.45)
Parole, immagini e sensazioni si succedono in spazi e tempi incerti mescolandosi, di tanto in tanto, con degli sprazzi di luce, dove ogni verso viene valorizzato da scelte lessicali che non concedono eccessi al virtuosismo ma che anzi levigano, sottraggono, asciugano fino all’essenziale. Le disillusioni e i paradossi abbondano, ma cercano sempre di fondersi con la realtà del mondo per non diventare mere astrazioni, perché in fondo il loro compito è soprattutto quello di “distrarre”, di mantenere il poeta – e quindi anche chi lo legge – sempre “un passo avanti al buio”. L’uomo è infatti il protagonista indiscusso dei versi di Strand, interpretato talvolta anche in termini soggettivi e in perpetua oscillazione tra realtà e sospensione metafisica. Il senso della morte e della fine delle cose, che anche se espressi in modo ironico e surreale non peccano di significato, fanno spesso da leitmotiv alla sua arte poetica.
Non penso a Morte, ma Morte mi pensa.
Si rilassa in poltrona, si sfrega le mani, s’accarezza
la barba e dice: “Penso a Strand, penso
che nei prossimi giorni uscirò in cortile, brandendo la falce
o guardando controluna la mia clessidra, e Strand uscirà
in giacca e cravatta e insieme sotto gli alberi spogli
dei boulevard passeggeremo fino alla città delle anime. E quando
saremo nella Grande Piazza dai palazzi di marmo, le moltitudini
che lì attendevano ci saluteranno con pianti deliranti,
e le loro lacrime, rese dure e fredde come vetro dall’essere state
tanto a lungo trattenute, cadranno, e scrosceranno sul selciato.
Oh, che sia presto. Che sia presto.”
(2002, pag.17)
Quella di Strand è una poesia che colpisce per i suoi tratti essenziali, per il respiro breve, per le immagini ben ritagliate, nitide e folgoranti, per l’ironia stemperata ma in ogni caso percepibile. Ma è anche una poesia che, proprio in virtù del paradosso che spesso la contraddistingue, può arrivare al punto di rivoltarsi contro il suo stesso ideatore. Come ad esempio nei versi che seguono, dove il poeta tenta di dare un significato all’uomo e al cammello, li abbina in un’immagine ideale e li fa pure cantare, ma loro sembrano non gradire tale sforzo…
La vigilia del mio quarantesimo compleanno
stavo in veranda a fumare
quando di punto in bianco un uomo e un cammello
apparvero. Dapprima nessuno dei due emetteva
alcun suono, ma mentre adagio risalivano la strada
e uscivano dal paese, i due cominciarono a cantare.
Ma quello che cantavano è rimasto un mistero per me –
le parole erano vaghe e il motivo
troppo ornato da ricordare. Dentro al deserto
andavano e nell’andare le loro voci
si alzavano all’unisono sul lieve scrosciare
della sabbia soffiata dal vento. La meraviglia del canto,
l’amalgama vago di uomo e cammello pareva
l’immagine ideale di ogni coppia fuori dal comune.
Era questa la sera che avevo atteso tanto
a lungo? Volevo credere lo fosse,
ma proprio mentre erano sul punto di svanire, l’uomo
e il cammello interruppero il canto, e al galoppo
tornarono in paese. Si fermarono davanti alla veranda,
fissandomi con occhi piccoli e lucenti, e dissero:
“Hai rovinato tutto. L’hai rovinato per sempre”.
(Uomo e cammello, pag.19)
Nel volume in questione figurano anche quattordici quartine commissionate all’autore dal Quartetto d’Archi Brentano, che sono state poi intercalate alle Variazioni di Anton Webern durante una serie di concerti. Come dire che i versi di questo poeta si combinano bene con una melodia di tipo introspettivo ma nello stesso tempo ricca di vibrante intensità, dove i singoli suoni, simili a delle pennellate calligrafiche, assumono una forza espressiva così intensa da permettere alla mente e al cuore di chi ascolta di sintonizzarsi sull’essenza del momento presente. Purtroppo non sono riuscita a trovare un video di queste performances, svoltesi anni addietro in diverse università americane, ma per darvi un’idea del particolare accostamento musica/poesia vi propongo le Variazioni Webern per orchestra (op.30) dirette dal maestro russo Vladimir Jurowski, da ascoltare in sottofondo, se vi fa piacere, mentre leggete le meravigliose quartine di Strand.
Il suo flusso improvviso
che scosta via i rami,
tarda estate che balena verso
l’immagine della propria assenza
Nel cuore del nulla,
nei vuoti radiosi,
persino la lingua dello svanire
lascia se stessa alle spalle
Nuvole, alberi, case,
nel sentimento che destano
all’approssimarsi del buio, paiono
frammenti di un’altra vita
Si può setacciare quel che resta –
la polvere di frasi pronunciate una volta,
le rovine di una passione –
ogni volta è di meno
La voce che si abbassa,
la voce che si volge
e prolunga il filo
del senso, il filo del suono
Quei viali di luce
che scorrevano tra le nuvole
qualche attimo fa sono scomparsi,
e d’improvviso è buio
Chi resterà a imbastire e
a cucire il sudario del canto,
le case tornate al loro posto, le piante
che sorgono da un’ombra purpurea?
Non troppo tardi per vedere se stesso
passeggiare sulla spiaggia la sera,
con che naturalezza viene il mare,
si spande, si ritira, scompare
Con che naturalezza respira,
e la mezzaluna levatasi tardi,
estratta dalla tenebra, guarda giù
e pare soffermarsi sulle onde
Sotto la luna e le stelle,
che sono quel che sono sempre state,
cosa dovremmo essere se non noi stessi,
in questa luce, che è luce da niente?
Cosa dovremmo sentire se non la voce
che dovrebbe essere nostra prendere forma,
la voce segreta dell’essere che ci dice che il luogo
in cui scompariamo è il luogo in cui siamo?
Come interpretare la fine di una stagione,
il refolo di freddo trascinato lungo
i corridoi della notte,
il vento che scosta via le foglie?
La visione del proprio passare passa,
i giorni scorrono in altri giorni,
la voce che cuce e imbastisce
riprende la sua opera
E tutto trasmuta e trasmuta
e l’ignoto trasmuta nel canto
che è ciò che è noto, ma cosa a sua volta
ne sia del canto, non sta a noi dirlo
(Le variazioni Webern, pag.59)
Un bell’effetto.
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Vero? Ascoltare dal vivo la lettura di questi versi intercalata ai brani musicali dev’essere ancora più suggestivo ed emozionante.
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“Le disillusioni e i paradossi abbondano, ma cercano sempre di fondersi con la realtà del mondo per non diventare mere astrazioni”, tu dici. Evviva!
Dici e sottolineo: per non diventare mere astrazioni!!!
E qui sta il punto. Il motivo per cui generalmente diffido della poesia, e per poesia intendo il “fare poesia” che sembra molto diffuso e appannaggio di fin troppe persone. Letterati di mestiere e aspiranti.
Dove ho sempre l’impressione di trovarmi davanti a un’accozzaglia di suoni e parole, messe lì facili. Che tanto… tutto fa brodo, e meno si capisce tanto più vale.
Certamente, siamo in un campo fin troppo soggettivo, dove io per primo faccio la tara ai miei giudizi.
Tutta questa premessa per dire quanto abbia apprezzato la tua scelta.
Per lo stesso motivo per cui amo (svisceratamente) Spoon River, e poi certi Bukowski, anche se differenti, ovvio, amo le poesie sopra del figlio e della MOrte (mi ha molto divertito) e l’uomo e il cammello.
L’ultima (Webern) ora mi piace ora c’è qualcosa che mi sfugge, e io sono possessivo, avaro… anche se so che è un peccato capitale per cui si va all’Inferno 🙂
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Le variazioni Webern sono un discorso un po’ a parte, scritte appositamente per essere abbinate con le corrispondenti melodie, e non possono offrire da sole un’idea esauriente della poetica di Strand. Se vuoi approfondire qualcosa sull’autore, cerca nel mio archivio e troverai degli articoli più vecchi che ne parlano in modo più approfondito 🙂
Per quanto riguarda Spoon River, visto che lo apprezzi così tanto non puoi fare a meno di visitare il blog dell’amica Maria http://startfromscratchblog.blogspot.com/ che ne ha parlato meravigliosamente bene proprio di recente, in una bellissima serie di articoli… Corri subito a vedere, che aspetti !?? 😉 😀
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Vado, dammi però il tempo di farmi un caffè… e qualche migliaio d’altre noiose ma necessarie cose… 🙂
Puoi però contarci e anzi, grazie delle segnalazioni… 🙂
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Il caffè, anche per me, ha sempre diritto di precedenza 😉
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Faccio una fatica immensa con la poesia, che spesso la evito. Sarà un retaggio scolastico: se non mi spiegano anche le virgole non la capisco.
Ogni tanto mi lascio trascinare senza troppi rimorsi e tecnicismi.
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Credo che per godersi veramente una poesia non bisogna avere l’ansia di capirla fino in fondo. Se poi qualcuno pretende di spiegartela, secondo me rischia di perdere fascino e quindi anche presa emotiva. E’ meglio abbandonare quel tipico approccio razionale-critico con cui siamo abituati ad affrontare altri testi. In altre parole è giusto lasciarsi andare, o come hai detto lasciarsi trascinare, calandosi senza freni e aspettative nell’atmosfera instillata dai versi, e poi aspettare di vedere cosa succede: se piace, se trasmette qualcosa a livello interiore o se lascia indifferenti, senza però l’affanno – o peggio ancora il senso di colpa – di volerne capire ogni sfumatura, ogni logica, ogni più piccolo dettaglio. Credo che alla fine la cosa più importante sia il tipo di “risonanza” che si avverte dentro di sé, che può essere forte e travolgente oppure minima o assente.
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… e per finire sono andato al link dell’amica Maria che un conto è dire Maria, che è bello, sa di cose di casa, lenzuola odorose di lavanda, basilico sul davanzale e profumo di sugo sul fuoco che va piano piano perchè è così che va fatto il sugo – e un conto è dire skrrr… che sa di bulldozer.
Ho visto che si parla parecchio di Baricco e io, quando sento Baricco, mi vengono in mente le archistar che qui a MIlano fanno i grattacieli di decine di piani e pure storti da farmi chiedere se loro, le archistar, ci andrebbero ad abitare, lì in cima all’ultimo piano…
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Se piace Masters, quei post meritano una lettura. Personalmente ho trovato originale e interessante l’idea di ripercorrere l’Antologia di Spoon River inserendoci non solo delle opinioni personali ma anche le canzoni di De André liberamente ispirate alla stessa.
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Ma se devo essere sincero (ci tengo a essere sincero ma sperando di non risultare antipatico) mi sono un po’ perso, sopratutto come concentrazione, già a livello di lay-out. Conseguenza visiva di impaginazione della mediazione De Andrè. Che giudico in ogni caso dispersiva dall’obiettivo Spoon River. Capisco, sì: è un’idea l’accostamento, un modo di porgere creativo. Ma sono per forza due mondi diversi. Ed epoche lontane.
Preferisco il mirare dritto senza debordare, coerentemente, non a caso, con le levate di cappello che non ho mai esitato ad esibirti ad ogni passaggio, qui, da queste parti.
Alla prossima! 🙂
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Anch’io la poesia non la mastico molto- anche se le cose con la vecchiaia stanno cambiando ;PPP
Questo autore, però, mi sembra decisamente interessante….dissacrazione e ironia sono parole magiche, per me.
Quanto alla poesia triturata dalla prassi scolastica dell’analisi del testo, sono pienamente d’accordo: bisogna evitare di cadere nella trappola dei tecnicismi, o sarà impossibile ricomporre da mille schegge impazzite l’immagine della bellezza.
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