
Se un uomo ha paura della morte, verrà salvato dalle sue poesie.
Se un uomo non ha paura della morte, le sue poesie forse lo salveranno forse no.
Anche se sono cresciuta in un ambiente famigliare dove la poesia era di casa, non posso definirmi una vera appassionata del genere, anche perché tendo a prediligere la forma del romanzo, del racconto o del saggio. Però mi capita ogni tanto di sfogliare delle pagine che traspirano versi, e quando incappo in un autore che riesce veramente a stupirmi, a trasmettermi qualcosa di particolare, diventa poi difficile evitare di parlarne. Mark Strand è uno di questi: canadese, nato nel 1934, viene annoverato ancora oggi tra i più grandi poeti americani viventi. Autore di svariate antologie poetiche, oltre che di racconti, saggi, libri per bambini e scritti sull’arte, ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti, tra i quali il MacArthur Fellowship (1987), il Premio Pulitzer per la Poesia (1999) e il Wallace Stevens Award (2004).
Le sue prime antologie giocano soprattutto sulla perdita/ricerca di un’identità, con un senso di minaccia sempre in agguato, di incertezza verso tutto ciò che potrebbe nascondersi là fuori, nel buio, all’esterno di se stessi. Poi, di pari passo con l’evoluzione artistica dell’autore, la minaccia esteriore è diventata via via interiore, nel senso che ha iniziato a provenire dall’io stesso introducendo anche un sottofondo di ironia.
Mark Strand è noto soprattutto per aver diffuso una poetica di tipo surrealistica e paradossale, dove però sogni e visioni si mescolano continuamente con elementi della quotidianità. Nei suoi componimenti troviamo spesso degli sdoppiamenti del sé che assumono valenze di autoannullamento, autoestinzione, se non addirittura di automutilazione. Non per niente è stato definito il poeta dell’allusività, della perdita e dell’assenza, come si può apprezzare in questa splendida poesia (Tenere insieme le cose, da Dormendo con un occhio aperto, 1964):
In un campo
io sono l’assenza
del campo.
È
sempre così.
Ovunque io sia
io sono ciò che manca.
Quando cammino
divido l’aria
e sempre
l’aria rifluisce
a riempire gli spazi
in cui era stato il mio corpo.
Abbiamo tutti motivi
per muoverci.
Io mi muovo
per tenere insieme le cose.
Le suggestioni metafisiche fanno spesso da sfondo alle misteriose “spoliazioni del sé” che il poeta ha bisogno di mettere in scena, come ad esempio in questi meravigliosi versi (Respiro, da Più buio, 1970):
Quando li vedi
dì loro che sono ancora qui,
che mi reggo su una gamba mentre l’altra sogna,
che solo così si può fare,
che le bugie che dico loro sono diverse
da quelle che dico a me stesso,
che con lo stare sia qui che oltre
sto diventando orizzonte,
che come il sole sorge e cala io conosco il mio posto,
che è il respiro a salvarmi,
che persino le sillabe forzate del declino sono respiro,
che se il corpo è bara è anche madia di respiro,
che il respiro è uno specchio offuscato da parole,
che solo il respiro sopravvive al grido d’aiuto
quando penetra l’orecchio dell’estraneo
e permane ben oltre la scomparsa della parola,
che il respiro è di nuovo l’inizio, che da esso
si distacca ogni resistenza, come il significato si distacca
dalla vita, o il buio si distacca dalla luce,
che il respiro è ciò che do loro quando mando saluti affettuosi.
Non sono un’esperta di arte poetica, quindi eviterò di sbilanciarmi in valutazioni critiche; posso solo dire, in tutta semplicità, che quando mi tuffo nelle pagine di Mark Strand ne esco ogni volta piacevolmente turbata e colpita. Il mio metro di giudizio, quindi, va di pari passo con le emozioni che le sue parole riescono a sollevarmi. Per tutto il resto lascio la parola a persone più competenti di me in materia, che intravedono nella sua opera <<… l’imagismo di Ezra Pound e l’astrattismo di Wallace Stevens; dall’altro l’immaginario dantesco, la metafisica moderna di Eugenio Montale, quella pittorica di Paul Cézanne e il surrealismo di Kafka. Da questa prospettiva la sua poesia appare come un fiume al cui alveo affluiscono mondi esterni che, interiorizzati, si rigenerano e incrementano la sua portata. (….) E’ una scrittura composita, quella di Mark Strand, autore abilissimo a intrecciare versi di differente tipologia, a mescolare registri e toni opposti, fantastico e quotidiano, elegiaco e autoironico, a creare accostamenti linguistici impermeabili al senso logico eppure non puramente combinatori o surreali, spiazzando e costringendo così il lettore a dipanare le sue associazioni mentali, a decriptare le sue potenti metafore. >> (da una recensione di Corrado Beningni, apparsa su Il Riformista del 9 aprile 2011)
E ancora: << Nel grande paesaggio dell’immaginazione, il più kafkiano dei maestri americani si muove tra desiderio e disperazione, tra possibilità che non possono che svanire e compiutezza assoluta, unendo alchemicamente allusività e precisione, densità ed evanescenza. La sua scrittura ci colloca in scenari struggenti di sconsolata felicità, presenze perdute, vita oltre la morte e morte in vita. In questa atmosfera eminentemente romantica, fatta di luce lunare, bruma, vento, mari in burrasca e interni angusti e spogli, Strand ci fa assaporare «il miele dell’assenza», ci insegna che «fissare il nulla è imparare a memoria / quello in cui noi tutti verremo spazzati» dentro un futuro che «non è più quello di una volta. >> (da Il futuro non è più quello di una volta, Minimum Fax, Roma, 2009 e 2012)
Ma adesso, al di là di qualsiasi spiegazione tecnica, vorrei lasciarvi in compagnia di altri suoi versi che, come tutte le produzioni artistiche, non dovrebbero aver bisogno di tante spiegazioni. A mio avviso la poesia, così come la musica o l’arte pittorica, si presta a mille suggestioni, a seconda di chi la sta leggendo o ascoltando. Da universale diventa individuale nell’esatto momento in cui ognuno di noi la percepisce e la elabora interiormente, in base alle emozioni del momento. Credo che alla fine, ciò che più conti, sia proprio lo stato d’animo di chi legge, ascolta o osserva, più che quello che voleva o non voleva veramente dire l’artista. Se poi nasce anche la necessità di approfondire, di voler capire cosa volesse veramente intendere il poeta con quelle parole, nulla impedisce di dedicarsi allo studio della metrica e delle eventuali metafore adottate.
Le poesie che seguono sono sempre tratte dal libro L’uomo che cammina un passo avanti al buio, che propone un’ampia selezione del percorso creativo di questo grande poeta, dagli esordi negli anni Sessanta fino alle produzioni più recenti. Personalmente ho una preferenza per i componimenti dove spicca maggiormente la vena paradossale dell’autore, anche se bisogna ammettere che tutte le sue liriche, in un modo o nell’altro, ti costringono a dipanarti tra associazioni mentali, improvvise invocazioni e potenti metafore, con il risultato di provocarti una sorta di vertigine. Un’inquietante ma piacevole vertigine.
L’uomo sull’albero
(da Motivi per muoverci, 1968)
Sedevo tra i rami freddi di un albero.
Ero senza vestiti, soffiava vento.
Tu eri lì sotto, con un cappotto pesante,
il cappotto che hai adesso.
E quando l’apristi, scoprendoti il petto,
tarme bianche presero il volo, e ciò che dicesti
in quel momento cadde a terra in silenzio,
la terra ai tuoi piedi.
La neve scendeva dalle nuvole fin nelle mie orecchie.
Le tarme del tuo cappotto volarono nella neve.
E il vento, sotto le mie braccia, sotto il mento,
piangeva come un bambino.
Non saprò mai perché
le nostre vite volsero al peggio, e neanche tu.
Le nubi mi affondarono nelle braccia e le braccia
si sollevarono. Si sollevano ora.
Oscillo nell’aria bianca invernale
e lo strido dello storno mi si stende sulla pelle.
Un campo di felci mi copre gli occhiali: li pulisco
per poterti vedere.
Mi giro e le foglie mutano colore con me.
Le cose non sono solo se stesse in questa luce.
Tu chiudi gli occhi e il cappotto
ti cade dalle spalle,
l’albero si ritrae come una mano,
il vento si adatta al mio respiro, ma nulla è certo.
La poesia che mi ha rubato queste parole dalla bocca
potrebbe non essere questa poesia.
La mano sporca
(da Motivi per muoverci, 1968)
La mia mano è sporca.
Devo amputarla.
Lavarla non ha senso.
L’acqua è putrida.
Il sapone è pessimo.
Non fa schiuma.
La mano è sporca.
Sono anni che è sporca.
La tenevo di solito
lontano dagli occhi,
nelle tasche dei calzoni.
Nessuno sospettava nulla.
La gente mi si avvicinava,
voleva stringermi la mano.
Io mi rifiutavo
e la mano nascosta,
come un lumacone buio,
mi lasciava il segno
sulla coscia.
E poi mi resi conto
che usarla o non usarla
era lo stesso.
Il disgusto era lo stesso.
Quante notti
nella profondità della casa
ho lavato quella mano,
l’ho strofinata, lustrata,
ho sognato che diventasse
diamante o cristallo
o soltanto, alla fine,
una mano bianca, normale,
la mano pulita di un uomo,
che si può stringere,
o baciare, o tenere
in uno dei momenti
in cui due persone si confessano
senza dire una parola…
con l’unico risultato
che la mano incurabile,
letargica, crostacea,
continua ad aprire dita sporche.
E lo sporco era ripugnante.
Non era fango o fuliggine
né il lerciume spesso
di una vecchia crosta
né il sudore
della camicia di un lavoratore.
Era uno sporco dolente
fatto di malattia
e angoscia umana.
Non era nero;
il nero è puro.
Era opaco,
un grigio sporco e opaco.
È impossibile
vivere con questa
mano nauseabonda che giace
sulla tavola.
Svelto! Mozzala!
Falla a pezzetti
e buttala
a mare.
Con il tempo, con la speranza
e i suoi complicati ingranaggi,
un’altra mano arriverà,
pura, trasparente come vetro,
e mi si attaccherà al polso.
La notte, il portico
(da Tormenta al singolare, 1998)
Fissare il nulla è imparare a memoria
quello in cui noi tutti verremo spazzati, e spogliarsi
al vento è sentire l’inafferrabile “qualche luogo” farsi vicino.
Le piante possono piegarsi o stare ferme. Il giorno o la notte possono essere quello che vogliono.
Quello che desideriamo, più che una stagione o un clima, è la consolazione
di essere estranei, almeno a noi stessi. Questo è il nocciolo
della questione, ed è il motivo per cui anche adesso pare che aspettiamo
qualcosa la cui apparizione sarebbe il suo svanire –
il rumore, ad esempio, di qualche foglia che cade, o una foglia sola,
o meno. Non c’è fine a quanto possiamo imparare. Il libro laggiù
non dice altro, e non è stato affatto scritto con in mente noi.
Cos’era
(da Tormenta al singolare, 1998)
I
Era impossibile da immaginare, impossibile
da non immaginare; il suo azzurro, l’ombra che proiettava,
che cadeva a riempire l’oscurità del proprio freddo,
il suo freddo che cadeva fuori di sé, fuori di qualsiasi idea
di sé descrivesse nel cadere; un qualcosa, una minuzia,
una macchia, un punto, un punto entro un punto, un abisso infinito
di minuzia; una canzone, ma meno di una canzone, qualcosa che affoga
in sé, qualcosa che va, un’alluvione di suono, ma meno
di un suono; la sua fine, il suo vuoto,
il suo vuoto tenero, piccolo, che colma la sua eco, e cade,
e si alza, inavvertito, e cade ancora, e così sempre,
e sempre perché, e solo perché, una volta essendo stato, era…
II
Era l’inizio di una sedia;
era il divano grigio; era i muri,
il giardino, la strada di ghiaia; era il modo in cui
i ruderi di luna le crollavano sui capelli.
Era quello, ed era più di quello. Era il vento che sbranava
gli alberi; era la congerie confusa di nubi, la bava
di stelle sulla riva. Era l’ora che pareva dire
che se sapevi in che punto esatto del tempo si era, non avresti
mai più chiesto nulla. Era quello. Senz’altro era quello.
Era anche l’evento mai avvenuto – un momento tanto pieno
che quando se ne andò, come doveva, nessun dolore era tanto grande
da contenerlo. Era la stanza che sembrava immutata
dopo così tanti anni. Era quello. Era il cappello
che s’era dimenticata, la penna lasciata sul tavolo da lei.
Era il sole sulla mia mano. Era il calore del sole. Era come
sedevo, come aspettavo per ore, giorni. Era quello. Solo quello.
Mark Strand lo conoscevo solo per averne sentito dire, fino a quando ho avuto l’occasione di leggere due suoi libri. Un colpo di fulmine, un poeta speciale, fuori dell’ordinario, sconveniente, un poco matto, il paradosso fatto poesia a prima vista scanzonata, sarcastica, poi, a una migliore lettura, di un’insospettata profondità di pensiero e di concetto.
Da leggere assolutamente Il futuro non è più quello di una volta ( Minimum Fax ) e soprattutto L’inizio di una sedia ( Donzelli, Roma, 1999 ), una raccolta, quest’ultima, di poesie tutte incentrate su un oggetto comune, umile, quasi banale, ma sul quale ci si siede a riposare quando si è stanchi, o per mangiare quando si ha fame o, al bar, per bere quando si ha sete, e talora, come Mark Strand, per fare quello che non tutti fanno, pensare, anzi, ancor di più, meditare. E in queste meditazioni s’una sedia seduti s’una sedia, scopriamo pagina per pagina le poesie della quotidianità in un’atmosfera parodica e paradossale, una introspezione ironico-drammatica tutta particolare, un mosaico di cose, personaggi, allusioni, considerazioni, situazioni di un’immaginazione tra il poetico e il kafkiano. Lo stesso titolo, L’inizio di una sedia, vuole spiegare tutto:
Starsene seduto s’una sedia e chiedersi dove nasca / il non aver fine, dove vada, quanto prossimo sia, e vedere / la neve che cade, i fiocchi che s’ingrandiscono qualsiasi cosa tocchino, / e mutano forma finché non resta forma. Nello scendere / sono stelle sopraffatte dalla luce, o pensieri sospesi in volo / davanti alle finestre lunghe vuote affacciate sul futuro, / e sfioriscono, turbinano, continuano a cadere, alfine via / dalle vetrate terse dentro il luogo dove nulla sarà adeguato, / dove nulla è necessario o detto, perché già noto.
E questo non è che un piccolo esempio, una piccola perla in uno scrigno che raccomando di scoprire.
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Ti ringrazio per aver arricchito il post con un tuo commento e con un’altra bella poesia di Mark Strand.
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Ecco, ho seguito il tuo link.
Le prime poesie che riporti mi lasciano un po’ così, vedi quanto ti avevo detto stamattina.
Invece mi piace da matti La Mano Sporca. E mi piace anche la parte II: “Era l’inizio di una sedia”.
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